In Nepal e in Tibet, la stagione dell’Everest è ricominciata. Tutte le spedizioni si sono ormai attestate ai rispettivi campi base sui due opposti versanti della montagna. Le vere novità alpinistiche sono due. La cordata di Denis Urubko e Alexey Bolotov, già in attività mentre scriviamo, sta cercando di salire la gigantesca parete sud ovest dell’Everest per una via nuova, senza ossigeno e senza portatori d’alta quota. Si tratta di un progetto ambizioso e molto difficile. Da parte loro, Simone Moro e lo svizzero Ueli Steck sono pure loro intenzionati ad aprire una via nuova senza ossigeno e in stile alpino. Decideranno sul momento dove salire, ma certamente rimarranno lontani dagli itinerari battuti.
Al solito, c’è da giurarlo, i guai si concentreranno per la maggior parte sulla via normale nepalese, ormai monopolizzata dalle spedizioni commerciali. Anzi, nel silenzio generale, sono già cominciati. Da poco è morto il 45enne Mingmar Sherpa, che faceva parte degli Everest Icefall Doctors, la squadra di sherpa specializzata nell’attrezzare con scale di alluminio e corde fisse l’itinerario di salita (ma anche nel curare la manutenzione), nel tratto della gigantesca seraccata dell’Icefall, che sovrasta il campo base nepalese. Mingmar e i suoi colleghi avevano appena completato l’attrezzatura del percorso e cominciavano a trasportare il materiale ai campi alti I e II, fin oltre i 6000 metri. Nel corso della discesa dal campo II (6600 m), lo sherpa è scivolato finendo in un crepaccio dopo una caduta mortale. Ovviamente, come dicevamo, la notizia non è quasi rimbalzata sulla stampa, ma noi abbiamo deciso di proporla ai nostri lettori per ribadire ancora una volta cosa succede dietro le quinte della corsa all’Everest. Un’attività che, considerando i retroscena, la logistica e le modalità con cui si svolge, assomiglia sempre di più a una vera e propria industria del turismo d’altissima quota. E che non ha più nulla a che fare con l’himalaysmo.