Con le ciaspole lungo i pendii del vulcano. Per domenica 4 marzo, il Parco dell’Etna organizza un’escursione con le racchette da neve lungo l’itinerario rifugio Brunek – rifugio Conti. Ritrovo domenica, ore 9.30, al rif. Brunek (Linguaglossa). La camminata – media difficoltà, 5 ore – verrà effettuata con le guide del Parco. Iscrizione (7 euro) entro venerdì (ore 9 – 12) allo 095.821240. Un bel modo per conoscere il volto primaverile del grande vulcano la cui presenza, da tempo immemorabile, permea la cultura siciliana, come racconta nel suo articolo Marinella Fiume *.
Se c’è una montagna per antonomasia – semplicemente “A muntagna”, per i siciliani – questa è l’Etna, il maestoso vulcano attivo più alto d’Europa. Onfalo del mondo col suo cratere, gli arabi lo chiamarono il Gebèl, ossia monte (da cui il nome di Mongibello). Non c’è stato un viaggiatore italiano o straniero del gran tour che non ne abbia lasciato un ricordo memorabile nei diari dei suoi viaggi in Sicilia, almeno dal Settecento. Ma le suggestioni letterarie – un vero e proprio tòpos – sono senz’altro più antiche, affidate ad una lunghissima tradizione, sia orale che scritta, che ha reso il vulcano un catasto magico. E insieme anche un archetipo del bene e del male: inferno vivo, popolato di mille mostri intronati dalle minacciose grida di Tifeo, Briareo ed Encelado, mentre sulla sua vetta risplende il sommo bene, un sole da paradiso. Sui suoi costoni, insieme ai pini, alle querce, ai faggi e agli astragali, fiorisce il mito. Un mito prima pagano e poi cristiano, il mito delle remote eruzioni e quello medievale, che fa del suo cratere la porta dell’inferno. «Un’antichissima leggenda fiorita in terra d’Egitto – scrive Il grecista, poeta e folklorista etnicolo Santo Calì nel suo I Diavoli del Gebel. Leggendario dell’Etna che curai nel 1995 – vuole che i crateri dei vulcani siano le porte dell’inferno. La leggenda dalle sponde del Nilo passò in Grecia, di lì in Etruria e poi a Roma». Demoni fiammeggianti del Tartaro tormentano le anime degli empi presso Platone, Aristotele e Seneca – fonti demonologiche classiche – e diavoli che sputano fuoco e zolfo tormentano le anime dei peccatori nel mondo cristiano; l’inferno cristiano è sotto la terra, i crateri dei vulcani sono le porte dell’inferno, il cratere dell’Etna è la più ampia e terribile di queste porte. Tanti e autorevoli padri e dottori della Chiesa affermarono che coloro che muoiono nell’ira di Dio vengono tormentati e divorati nel fuoco dell’Etna. La religione cristiana confermò il mito convertendo Tifeo in Lucifero e l’Etna fu per sempre Umbilicus Inferni. Le leggende sul suo cratere come porta dell’Inferno sono ancora raccontate dai contadini e dai pastori che abitano alle pendici del vulcano, con le “storie del fuoco” dei superstiti, rari cantastorie.
Ma l’Etna si staglia a simbolo di tutte le contraddizioni dell’isola e, parallele, corrono anche le “Storie siciliane di Re Artù”, nelle leggende del ciclo bretone presumibilmente importate in Sicilia dai Normanni, del cratere come sede del paradiso terrestre – simile alla figurazione dei Campi Elisi della mitologia classica – dove re Artù, la sorella Morgana e i cavalieri della tavola rotonda avrebbero vissuto la loro seconda vita. La leggenda narra che Artù non sarebbe mai morto nonostante le ferite mortali inflittegli da Modred, ma vivrebbe in un luogo incantato e recondito, da cui farà ritorno per vendicare i nemici del suo popolo. Le leggende su questa seconda vita furono raccolte da Gervaso da Tilbury che, in Sicilia ai servigi di re Guglielmo I intorno al 1190, avendo visitato Catania e assunto diverse informazioni, diede come diffusa nella zona etnea la tradizione bretone. Tradizione che coincideva con quella raccolta da Goffredo di Mommouth, secondo cui Morgana aveva trasportato in qualche luogo nascosto Artù ferito, ma divergeva sul luogo, che non sarebbe stata l’isola paradisiaca di Avalon, bensì una grotta non meno paradisiaca dentro il Gebel. E certo i Normanni dovettero subire non poco il fascino della Sicilia se assunse ai loro occhi l’aspetto della paradisiaca isola di Avalon! È qui che i cavalieri cercano ancora il loro sire, come cantava un anonimo giullare duecentesco che, come usava nei bestiari medievali, indossa i panni di un pellegrino zoomorfo, furbo come un gatto e coraggioso come un lupo, noto appunto come “Gatto lupesco”: Cavalieri siamo di Bretagna, / ke vegnamo de la montagna / ke ll’omo apella Mongibello …
Ci imbattiamo così anche nell’Etna nel mito edenico, quel paradiso terrestre che la tradizione, pur avendolo spostato ora in Oriente ora in Occidente, concordava nell’immaginare come un monte altissimo e che spesso era stato collocato in una regione vicina all’Inferno o al Purgatorio. Potevano dunque le feraci plaghe dell’Etna, descritte da Pietro Bembo nel De Aetna come paragonabili solo all’immaginaria Feacia di Omero, sostituire la felice isola di Avalon , regno dell’eterna primavera.
Oggi, caduti ormai i miti (non per Tifeo, ma per nascente zolfo…), gli abitanti di queste plaghe possono permettersi persino di fare ironia sul loro “burbero benefico” e l’Etna sta – scriveva Leonardo Sciascia – «come un immenso gatto di casa che quietamente ronfa e ogni tanto si sveglia, sbadiglia, con pigra lentezza si stiracchia e, d’una distratta zampata, copre ora una valle, ora un’altra, cancellando paesi, vigne e giardini».
Marinella Fiume, nata a Noto, è dottore di ricerca in Lingua e Letteratura italiana. Per due legislature è stata sindaco del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (CT). Tra le sue pubblicazioni: Vita di Orazia contadina e guaritrice, Palermo, 1988; Introduzione e cura a S. Calì, I diavoli del Gebel, Leggendario dell’Etna, Palermo, 1995; Sibilla arcana – Mariannina Coffa (1841 – 1878), Caltanissetta, 2000. Ha inoltre curato il Dizionario biografico Siciliane (Sr 2006) e pubblicato saggi, racconti e romanzi.