Discesa agli Inferi

di Marinella Fiume – Nicolosi è un paese in provincia di Catania, meta turistica per chi voglia raggiungere le piste da sci e la funivia, arrivando fino al cratere centrale. Qui è nato ed è vissuto Antonio Nicoloso, la più grande guida alpina e vulcanologica dell’Etna  mancato pochi anni fa. Mi considero una privilegiata per averlo conosciuto, per aver festeggiato con lui l’ultimo suo compleanno. Volli conoscerlo attratta dalla straordinaria avventura che fece parlare di lui la stampa di tutto il mondo, quando si calò nel cratere centrale in eruzione. Ma, a distanza di anni, ci ritornai, perché sentivo che avevo ancora molto da imparare da lui, e raccolsi quella che è rimasta la sua ultima intervista, da cui ricavai in seguito il racconto “Il padrone del fuoco” (da Storie d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco, a cura di E.Chiavetta e S. Fernandez, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007). Ecco, con le parole di Nicoloso, il resoconto  di quell’incredibile impresa.

«Il fuoco è buono, e la lava infuocata dell’Etna, quando scende, è come un fiume o un ruscello, controvento ti puoi avvicinare anche a pochissimi metri, due o anche uno. Su una colata larga otto-dieci metri ci puoi camminare, la puoi attraversare con i semplici scarponi da montagna, basta che fai attenzione a non cadere e non ti fermi, devi percorrerla speditamente, di corsa, perché la lava dell’Etna in superficie è dura ed è questa una delle tante diversità della nostra “muntagna” dai vulcani di tutto il resto del mondo. La sua temperatura in superficie generalmente è tra i seicento e i novecento gradi, solo quella del 1971 fece eccezione, una qualità di lava mai vista, che in superficie raggiungeva i milleduecento gradi e tra la lava e l’altezza d’un uomo di un metro e cinquanta era il doppio della temperatura solita di cinquanta, sessanta gradi. Le lave dell’Etna non sono molto fluide, in trecentomila anni, quanti ne ha compiuti, ha innalzato una montagna di più di tremila metri di altezza, la lava si solidifica e fa cumuli, nel 2002 per esempio, in un solo mese ha fatto più di trecento metri di altezza, come quando un gigante bambino cresce e diventa adulto; al contrario, i vulcani delle Hawai non alzano il loro livello, perché le lave sono talmente liquide che fanno fontane di magma incandescente come fuoco sciolto. Io sono stato a vedere di persona i vulcani d’ogni parte del mondo: Hawai, Centro America, Giappone, Africa, l’ultima spedizione l’ho fatta in Etiopia che avevo settant’anni, ma nessuno è come la nostra muntagna, insidiosa più di tutti perché ha i caratteri di tutti gli altri messi insieme, perciò basta che ti  guardi da tutto.  Però a muntagna non è cattiva, cattivi siamo noi che la sfidiamo, a muntagna bisogna rispettarla, averne paura senza lasciarsi prendere dal panico, perché i morti del 1979 li abbiamo visti presi alle spalle dalle bombe, mentre fuggivano alla cieca, senza guardare qual era la direzione migliore verso cui scappare. Io, invece, l’ho sfidata e malgrado ciò lei è stata buona e  mi ha graziato.

Sono nato sull’Etna e sull’Etna ho vissuto tutta la mia vita.  Capii qual era la mia strada quando, a cinque anni, mio padre mi legò con una corda piccola e mi portò con sé insieme a mio fratello Orazio, di quattro anni più grande di me, in una spedizione al cratere centrale a dorso di mulo. Arrivati là ci affacciammo tutti, noi e i forestieri, nella bocca fumante del cratere centrale e mio padre mi disse: “U vidisti? Ora nun lu vidi cchiù!”. Mio padre cominciò a sedici anni come portatore, sotto la scuola di suo padre, che era a sua volta guida. A vent’anni aveva la patente di guida alpina anche lui, a quei tempi ci voleva una frequenza di anni ed anni prima di diventare guida, era un mestiere antico che si tramandava da secoli questo di condurre turisti e scienziati per gli impervi sentieri di una montagna sempre diversa. Ora bastano pochi mesi soltanto per la patente… Guadagnava discretamente, aveva conosciuto e accompagnato sul cratere personaggi famosi, era stato la guida prediletta di Amedeo D’Aosta. Ma non era una vita facile la sua, perciò non voleva che noi seguissimo il suo esempio. Io, però, cominciai a rubargli il mestiere senza che lui mostrasse di accorgersene; lui aveva un’esperienza maturata con la lunga permanenza sul vulcano, l’esperienza è la cosa più importante per capire la nostra muntagna, bisogna prima sbagliare molte volte per poter dire di capirne qualcosa… Mio padre morì nel 1966, ma io e mio fratello cominciammo già dall’anno prima ad accompagnare turisti e  studiosi nell’ascensione al cratere.

Quando scesi nel cratere centrale quel 24 settembre del 1974, non ci credeva nessuno che io l’avrei fatto davvero, le guide mi deridevano, mi prendevano per pazzo, lo stesso vulcanologo francese Tazieff non pensava mi spingessi a tanto. I contadini dissero poi che ero stato io il colpevole delle minacce portate dalla lava ai loro campi coltivati, perché ero sceso nel ventre del vulcano, dove nessun uomo era mai sceso prima e la muntagna si vendicava della mia temerarietà. Ma neanche io ci avevo mai pensato prima e forse neanche allora pensavo che l’avrei fatto. L’idea era nata durante una spedizione in Etiopia con un’équipe cinematografica francese che realizzava un film di fantascienza. Il regista non aveva mai visto un vulcano e si rivolse al professore Haroun Tazieff perché aveva bisogno di scene girate su un vulcano. Tazieff disse che per lui era impossibile accompagnarli, ma che poteva chiederlo a me e mi chiamò per accompagnarli sull’Erta Ale. Organizzammo una spedizione con una decina di persone, guide e operatori. Il regista era curioso come un bambino, non aveva mai visto un vulcano e mi tempestava di domande. Ma voleva sapere soprattutto dell’Etna, mi chiedeva com’era, che differenza c’era con l’Erta Ale e infine mi propose di fare la discesa nelle viscere del nostro cratere che lui avrebbe ripreso per farne un documentario esclusivo. Lo lascai con un  generico “Sì, poi vedremo…”. Mentre pensavo tra me e me: “Questo è pazzo”. Invece lui rientrò in Francia, preparò tutto il necessario e a settembre mi telefonò dicendomi che aveva trovato gli sponsor, preparato tutto il materiale ed era pronto a venire per girare il filmato. Non credevo che l’avrei fatto, ma cominciai subito le ricognizioni sui luoghi. Mi affacciai alla bocca del cratere centrale, quante volte l’avevo guardato e fatto guardare ai turisti, ma mi sembrava ora di vederlo per la prima volta! Del resto, il cratere non è sempre uguale, in quel momento c’era un’intensa attività interna. Mi misi ad esaminare i bordi della grande bocca per vedere se erano regolari perché a volte le esplosioni sono regolari e i bordi sono uniformi, a volte invece le esplosioni avvengono da un lato e la bocca pare inclinata da quel lato. Dai sopralluoghi effettuati capii che la situazione era tale per cui era davvero impossibile la discesa. Dissi che in quelle condizioni proibitive l’impresa non poteva aver luogo.

Ma, quando l’indomani, alle prime luci del giorno, col freddo di una temperatura di poco superiore allo zero e il vento che arrossava la faccia e inaridiva le labbra, tra le continue scosse che facevano tremare il terreno sotto i piedi e i rimbombi che assordavano le orecchie, l’équipe si piazzò lì con tutto l’armamentario, mentre le guide mi dicevano che era una pazzia, la mia dignità non poté sopportare che venissero vanificati tanti preparativi, una specie di scommessa con me stesso. Avevo paura, era un’impresa al limite delle possibilità umane, ma ad un tratto pensai di potercela fare, ne fui certo, sì ce l’avrei fatta, lo dissi a tutti incoraggiando i dubbiosi. Mi vestirono come per una spedizione su Marte: tuta d’amianto, scafandro. Nelle viscere del cratere i gas sono i nemici più insidiosi. L’équipe di Tazieff aveva messo a punto una maschera antigas con una batteria a pompa forzata che funzionava una meraviglia, dovevo optare tra lo scafandro tutto chiuso e questa maschera. Scelsi lo scafandro perché a quella profondità e con una temperatura che sarebbe stata di circa trecento gradi la maschera non avrebbe funzionato perché l’ossigeno brucia, mentre funziona bene quando il gas è in superficie, e inoltre lo scafandro mi avrebbe protetto dai proiettili infuocati lanciati dal vulcano.

Anche l’operatore che doveva fare le riprese sul bordo del cratere si vestì come me, sembravamo due astronauti. Dopo la vestizione mi imbragarono con una corda rivestita di materiale ignifugo e cominciai la discesa. La voragine si estendeva per una profondità di circa duecento metri e terminava in una piattaforma. Non è sempre così, a volte può esserci una profondità molto minore, anche una cinquantina di metri, o una trentina, una volta, invece, con Tazieff abbiamo calato un cavetto di millecinquecento metri e non siamo riusciti a toccare il fondo. Dopo vari tentativi calarono nel vuoto una lunga scala a pioli, la vecchia scala di salvataggio della vecchia funivia, di corde e pioli di legno, lungo una parete a strapiombo senza che la toccasse mai, perché le pareti incandescenti avrebbero carbonizzato le corde dei due lati. Impassibile, comincio lentamente la discesa. Aiutato dalla corda mi calo per i duecento metri che separano la superficie dalla piattaforma in fondo al cratere e, arrivato lì, comincio la mia passeggiata in un paesaggio verdognolo e crepato d’ogni parte, tra le bianche fumarole, infossando nella cenere fino alle caviglie, verso la bocca che vomita fuoco e fiamme. Ma, a una trentina di metri da essa, accade una violenta esplosione, si sprigiona tra i fragori una colonna di fumo e sabbia nera, da sopra pensano che io sia morto e cercano di recuperarmi tirandomi con la corda di sicurezza. Maledetta corda, mi sarà solo d’impiccio! Mi tirano su un paio di metri e faccio segno di lasciarmi andare. Tra il fumo e i gas acidi e solforosi, i miei occhi gonfi non sono più in grado di vedere niente. Tento di dirigermi verso la bocca che dista una trentina di metri, ma sono costretto a fermarmi e tornare sui miei passi, sono entrato in una sacca di gas velenosi, mi getto giù strisciando come una salamandra perché i gas salgono verso l’alto. Malgrado lo scafandro, però, i gas entrano lo stesso.Non ho più fiato, non ho più forze, i miei sensi vacillano, sono sfasato, stordito e disorientato. Mi sento in trappola. Rassegnato. Mi preparo a morire. A passare da quella specie di sonno alla morte. Poi, d’istinto mi riprendo un pochino, recupero e, sempre faccia in giù, tento di strisciare verso la parete dalla quale pende la scala a pioli. Arrivo ad afferrare la scala, mi aggrappo, comincio a salire qualche piolo. È un inferno, la scala si gira e rigira su se stessa continuamente, ogni volta urto contro la parete, continuano a sprigionarsi i gas. L’operatore “marziano” in superficie sviene. Continuo la risalita: cinquanta metri, cento metri, centocinquanta. Sono allo stremo, senza ossigeno. A una quarantina di metri dall’arrivo sto per lasciarmi andare e ripiombare giù. Vistomi in difficoltà, alcune guide si vestono, scendono e riescono a trascinarmi in superficie. Ma, prima di riemergere, ho già ripreso il mio sangue freddo, mi rianimo,  esco fuori con un sorriso».

 

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