Chi si ricorda della povera Miyolangsangma?

di Navyo Eller – Kathmandu, 30 maggio 2013. Il 60° della salita di Tensing Norgay e Edmund Hillary all’Everest, il 29 maggio 1953, non rappresenta una data speciale. In fondo non si tratta né di un cinquantenario né di un centenario. Tuttavia, in seguito alla sbandierata lite tra alpinisti occidentali e sherpa, di recente l’Everest è di nuovo rimbalzato sulle pagine di tutti i quotidiani e sul Web, e così si è ricordato anche l’anniversario. In queste settimane la rissa, le polemiche,  i nuovi primati (a volte bizzarri) e le chiacchiere hanno davvero acceso i riflettori sull’Himalaya. E a completare il quadro non manca nemmeno Reinhold Messner, che è arrivato in Nepal posto per fare un documentario e festeggiare il 60° anniversario a Kathmandu, la capitale del paese.

Insomma, in seguito a una concomitanza di eventi, questa primavera il Paese delle nevi è tornato a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Al punto che nemmeno l’Ente Nazionale per il Turismo sarebbe mai riuscito a finanziare l’enorme ondata mediatica che sta rimbalzando in tutto il mondo.

Everest-segnavia54In queste settimane, ai piedi della montagna ci sono oltre 1000 persone, e sono previsti circa 500 tentativi individuali alla vetta. Facile si registri un nuovo record di presenze sulla cima. Ma c’è una differenza, rispetto al passato: una volta l’Everest lo si scalava; oggi, dopo decenni di presenze, di salite di ogni genere, di primati spesso discutibili (il matrimonio in vetta, l’atteraggio “touch and go” di un elicottero, ecc.), è difficile parlare ancora di alpinismo. Chi frequenta il campo base e arranca sulle pendici della montagna sembra catturato dal vortice di una kermesse, più che da una scalata. La casa della Dea madre della Terra è letteralmente invasa da un’ondata di persone, preparate o meno, supportate con tutto l’occorrente nei campi tendati, dal base al campo quattro, a quasi 8000 metri. E così, alla fin fine, che differenza c’è se lassù paghi per l’orgoglio di arrivare, per il prestigio personale o per soddisfare te stesso e i tuoi sponsor? In ogni caso si tratta sempre e solo di una questione puramente commerciale: uno paga un altro per una cosa.

In sessant’anni il rapporto degli scalatori con l’Everest è cambiato del tutto, la sacralità della montagna è stata ferita a morte, ma questo non sembra importante quasi per nessuno. E nonostante i fiumi di parole degli alpinisti, le cose peggiorano di anno in anno. Ormai le spedizioni che “ripuliscono” la montagna dai rifiuti non bastano più, nonostante le 4 tonnellate di immondizia portate a valle da una spedizione indiana questa primavera. Ce ne vorrebbero altre ancora.

Forse i controlli sono troppo poco severi, forse la causa di tanta incuria va ricercata nel menefreghismo imposto dalla sopravvivenza in alta quota. Ad ogni modo, la montagna sembra riempirsi sempre di nuovi rifiuti. Che ovviamente sono sempre quelli lasciati dagli altri. Gli elicotteri, una volta raramente visibili, invadono ora le valli del parco per veri (o supposti) soccorsi in montagna, per portare su persone che hanno i soldi ma nessuna condizione fisica per camminare. In certe giornate, si può assistere a decine di voli, che sembrano essere solo un “ponte” per far risparmiare tempo e fatica. Sta di fatto che in queste ultime stagioni, nel cosiddetto Parco nazionale del Sagarmatha, ci si scontra con un traffico di elicotteri mai visto, finanziato spesso dalle assicurazioni di viaggio, per una piccola ferita o per il modesto malore di un assicurato.

I soldi dominano la vita non solo a Milano, ma ormai anche a Gorak Sheep, a quota 5200. Colpa anche di chi pretende di portare la gente in vetta, per poi lamentarsi che ci sono troppe persone che salgono l’Everest e che non possono “rinunciare” alle comodità cui sono abituati a New York. Gli Sherpa si sono adattati, hanno capito come si deve fare, e forse hanno imparato anche fin troppo bene.

Intanto, a Kathmandu, si celebra l’anniversario della prima ascensione del 1953, e anche la regina d’Inghilterra non ha mancato a mandare gli auguri. E noi intanto, in sei decenni, dopo esserci presi la montagna l’abbiamo sfruttata senza pietà, e senza badare alle conseguenze. E chissenefrega della cultura e della religione di chi abita nelle alte valli dell’Everest. L’importante, la sera, è riuscire a bersi la “ben meritata” birra in tenda o in un lodge. Abbiamo portato soldi, sì, ma anche rifiuti ed elicotteri. Dopo sessant’anni l’alpinismo sull’Everest è in forte crisi e deve affrontare domande serie: domande cui solo gli alpinisti possono rispondere. Nel mondo postmoderno c’è ancora qualcuno che pensa alla povera Miyolangsangma, la dea che viveva sulla vetta dell’Everest? Chissà… Come ha detto l’alpinista nepalese Tulasi Ram Bhandari, forse: «non farà molta differenza imporre regole più ristrette; sarebbe meglio educare gli alpinisti a non buttare i rifiuti ovunque lungo le vie di salita».

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