
di Maurizio Puato.
Ore 8 del mattino, l’ascensore che porta al terrazzo panoramico della Mole Antonelliana ancora non gira, e quindi la prima salita la facciamo a piedi. Il lusso del passaggio per accedere al posto di lavoro, a quell’ora non ci è concesso. La Mole apre i battenti ai turisti alle 10, e noi a quell’ora abbiamo già fatto una discesa.
Salgo lentamente. Uno scalino dopo l’altro. Gli scarponi pesano e le gambe non sono ancora calde. Lo sguardo è fisso in basso. Il cuore batte lentamente e il cervello è come la sabbia del bagnasciuga. I sogni in un lento andirivieni continuano a bagnare la terra del giorno che sta iniziando.
L’imbragatura con tutti i suoi attrezzi pesa, e i moschettoni si urtano e tintinnano come campanelli. Il suono va a ritmo del passo lento. Lo zaino che contiene l’attrezzatura fotografica ormai è diventata una parte di me: la mia gobba. Quasi non ne sento più il peso ma, nei restringimenti del percorso interno alla cupola, urta spesso contro il muro. Mi muovo in maniera goffa. Più salgo, e più il muro della parte esterna della cupola s’inclina. Mi schiaccia da un lato. Anche il percorso diventa una terra di mezzo. Interno visto dall’esterno, esterno visto da dentro.
Curioso, apro un finestrino che si affaccia nell’aula del tempio e quasi m’impressiona quel vuoto all’interno; avverto una vertigine, una forza centripeta che mi risucchia. 60 metri sotto i miei piedi, ecco le poltroncine rosse del Museo del cinema. Quando arrivo a quota 80 metri sono tutto sudato. In inverno, come d’estate. 85 metri di dislivello e 500 scalini.
Apro la porticina che dà sul vuoto all’esterno della cupola e una leggera brezza mi accarezza il viso. Mi rinfresca e mi dà il buongiorno. Chiudo gli occhi. Li riapro e guardo fuori. La città a quell’ora è come il bagnasciuga nella mia testa. Un grande limbo temporale. La terra di mezzo, tra realtà e sogno. Quanto è grande Torino vista da quassù. Geometricamente barocca. Guardo la gente camminare e immagino i loro pensieri salire come palloncini. Qualcuno se lo porta via il vento, qualcuno s’incaglia su una grondaia, i più belli salgono in alto.
Mentre infilo i guanti da lavoro, penso al falco pellegrino che ieri mattina ho dovuto liberare perché era rimasto imprigionato. Forse spaventato dal mio arrivo, anche lui un po’ assonnato, non mi aspettava così presto e cercava di fuggire dalla parte sbagliata. Che emozione, non avevo mai preso un rapace tra le mani. Si difendeva bene: se non fosse stato per i guanti da lavoro, sicuramente mi avrebbe staccato qualche pezzo di carne.
Poche parole anche con gli altri. Il mattino, economia verbale. La giornata sarà faticosa. Quando si sta appesi alla Mole, ogni piccolo sforzo aumenta d’intensità e i 15 chili tra imbracatura, attrezzatura, sigillanti e macchina fotografica sono tantissimi.
Mi affaccio dalla porticina da cui usciamo per calarci e lavorare. Non mi sono ancora legato, faccio tutto con calma. Nel mio lavoro non c’è margine per l’errore; ogni manovra, ogni gesto devono essere studiati, precisi. Prendo la corda e la infilo nel discensore. Mi affaccio, mi giro ed esco come se dovessi entrare, dando le spalle al vuoto. Indietreggio di un passo e sono completamente nel vuoto, le mie mani non stringono più nulla di ciò che è il proseguimento della Terra, sono affidato a uno strumento e a un cordone ombelicale di 10 millimetri di diametro collegato a una stella!