di Roberto Mantovani – Chi cerca la storia resterà deluso. Walter Bonatti, l’uomo, il mito, l’ultimo libro di Roberto Serafin (Priuli & Verlucca, Scarmagno 2012) non ha né lo scopo di far storia né il passo di una narrazione storica. Ha il linguaggio del rotocalco, i colpi ad effetto del mestiere, e abbondanti dosi di “colore” studiate per tenere alta l’attenzione del lettore. Peccato, perché un personaggio dello spessore di Bonatti, oltretutto lontano dall’alpinismo estremo dal febbraio 1965, non ha bisogno di chiacchiere. Può solo essere consegnato alla storia. Impossibile comprenderlo isolandolo dal contesto dei suoi anni, dalla cultura della sua epoca, da un alpinismo che non c’è più e da una stagione dell’esplorazione chiusa per sempre e degradata ad esperienza turistica. Se non si colloca il personaggio in una prospettiva storica, facendo davvero storia, è facile cadere nel cicaleccio e nel pettegolezzo, scambiare qualsiasi testimonianza per una fonte documentale, e lanciarsi in interpretazioni dal respiro affannoso, senza riuscire a cogliere la vicenda nel suo complesso. C’è anzi il rischio che si finisca per incorrere in errori di prospettiva, aggrappandosi a fatti irrilevanti, invece di comprendere il valore del percorso di una vita.
Non si fraintenda: utilizzare la metodologia della ricerca storica, non vuol dire creare degli affreschi popolati di eroi tutti d’un pezzo, senza macchia e senza paura. Significa invece ricercare la verità mettendo in relazione eventi e personaggi all’interno di uno spazio temporale, non disgiunti dal contesto culturale, ambientale, sociale. Significa sottoporre a verifica e confronto la memoria condivisa e mai accontentarsi di scorciatoie interpretative. Se manca il metodo, ogni narrazione possibile rischia di abbassarsi a chiacchiera.
Il tono del libro oscilla continuamente tra l’agiografia e un’insinuazione che vorrebbe fungere da correttivo alla mitopoiesi del personaggio, cioè alla costruzione del mito, in cantiere già ai primi anni ’60 del secolo passato. Ma il plot narrativo del racconto finisce per accogliere maldicenze scadute da un pezzo, mormorii risibili e malignità di provincia già ampiamente gettate alle ortiche da chi ha studiato con attenzione l’alpinismo di quegli anni. Che Bonatti avesse un carattere forte e non le mandasse a dire a nessuno, non è una novità. Ma è anche vero che per anni Walter è stato eretto a bersaglio da tutti quelli che erano infastiditi dalla sua ombra e che hanno continuato a fargli le pulci con il microscopio per una frase poco felice, per un borbottio o per essersi negato a qualche intervista dopo un’intera vita passata sulla ribalta.
Ci sono però, nel libro, passaggi su cui mi permetto di obiettare. È vero che Bonatti fu grato a Roberto De Martin, oggi past president del Club Alpino, per quanto pubblicato sulla “Rivista” Cai nel 1994, a proposito della vicenda del K2. Ma è altrettanto vero che Walter, esaminata a fondo la questione, non la considerò chiusa fino al 2008, e questo non se l’è inventato il giornalista Leonardo Bizzaro, ma lo prova la fitta corrispondenza di Bonatti in quel periodo. Allo stesso modo, mi permetto di contestare le motivazioni addotte per spiegare la nascita della Commissione dei tre saggi istituita nel 2004 dal Cai. La vicenda non nacque affatto perché la stampa nazionale non aveva dato risalto a quanto avvenuto in ambito Cai nel 1994, come sostiene il libro. La cosa partì da una lettera ideata da Pietro Crivellaro, firmata da giornalisti, intellettuali, storici, e personaggi della cultura e inviata dalla “Rivista della Montagna” al presidente nazionale Cai, Annibale Salsa. L’iniziativa fu replicata poco dopo da un’analoga lettera di “Alp” e seguita da altre iniziative dello stesso genere. Fu poi Salsa a volere la famosa commissione composta da Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi. Tutto documentato e documentabile. E il lavoro dei Tre saggi rappresentò lo “scavo” definitivo e risolutivo nei meandri dell’annosa vicenda e permise di ricostruire nei particolari la storia della fase finale della scalata e, soprattutto, la questione dell’ossigeno. Che non costituisce affatto un elemento accessorio del racconto originario, ma è il punto focale su cui si imperniano le due differenti versioni di Bonatti e Compagnoni-Lacedelli.
Serafin si addentra anche sul tema delle difficoltà e della tecnica. Si chiede il perché di una documentazione fotografica tanto precisa nella zona dei pendoli sul pilastro del Dru. Ma chi avrebbe potuto lavorare di furbizia, su difficoltà del genere, da solo e in un posto simile, nel 1955? Come avrebbe potuto Walter, 25enne squattrinato (basta osservare nelle foto com’era vestito), complottare con un fotografo armato di teleobiettivo per documentare la salita? Suvvia, siamo seri.
L’autore ritorna anche sulla vecchia querelle del numero dei chiodi impiegati da Bonatti e Ghigo sul Petit Capucin nel 1951, riprendendo una frase di Guido Magnone che parlava di preparazione assai spinta della via. La questione è vecchia di quasi sessant’anni e da molto tempo abbondantemente risolta. Anche perché Magnone, nel 1953, portò a termine la quarta salita della via, trovando ovviamente infissi i chiodi dei ripetitori e di quanti l’avevano tentata senza salirla. Peccato però che, accanto a Magnone, non venga mai citato quanto detto da Rébuffat a proposito della via sul Capucin, né vengano riportati i dubbi, espressi dai ripetitori francesi, sulla prima ripetizione dell’itinerario da parte di Ghedina e Lacedelli. Quanto al numero dei chiodi, è giusto che si sappia che la testimonianza di Luciano Ghigo, più volte interrogato da chi scrive, molti anni dopo corrispondeva alla lettera con quanto dichiarato da Bonatti.
I passaggi suscettibili di contestazione sarebbero parecchi, e il Web ha i suoi limiti. Aggiungo solo, in chiusura, che Bonatti – che era pur sempre un uomo in carne ed ossa e non un semidio dell’antica mitologia greca – non covava affatto rabbia nei confronti degli alpinisti più giovani. Ho ragione di ritenere che qualche dichiarazione un po’ fuori dalle righe gli sia stata estorta e riportata fuori contesto. Chi lo conosceva bene, sapeva, ad esempio, della simpatia per molti giovani scalatori, che frequentava e apprezzava. Non apprezzava Casarotto? Ma andiamo… Certe affermazioni non funzionano neanche al bar sport.
8 comments
Ammetto di essere un po’ di parte. Però è davvero un bel pezzo. Complimenti
Ancoraaaaaaaaaaa???????
Rendiamo onore al Suo merito e lasciamoLo riposare in PACE.
Almeno ora!
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il commento di Roberto Serafin, autore del libro “Walter Bonatti, l’uomo, il mito”.
Caro Mantovani, ho letto con il dovuto interesse la tua stroncatura del mio libro su Bonatti e apprezzato la tua onestà nel riferire opinioni che già mi erano giunte per vie traverse. Hai scritto da par tuo senza che ti facesse velo la nostra amicizia, e questa è una ragione in più per apprezzare il tuo lavoro e il tuo impegno. Spero di poter ritrovare, se la vita me lo consentirà, la tua stima per il mio modesto lavoro di giornalista.
Un caro saluto,
Roberto Serafin
Grazie per la risposta, di cui prendo senz’altro atto. Da parte mia si è trattato di una doverosa e onesta assunzione di responsabilità. Ma assolutamente nulla di personale. Ricambio i saluti
Roberto Mantovani
Chapeau!
Silene Bubbolina
Leggo solo ora il pezzo di RM su Bonatti.
Non mi addentro certo qui su quanto riguarda Bonatti: sarebbe lungo, troppo lungo.
Ma vorrei che si smitizzasse anche la menata dei “Tre saggi”.
1) Fosco Maraini, grand’uomo sia chiaro, era sul letto di morte: il suo contributo è stato una firma e una lettura. Peccato, dei tre era l’unico ad aver salito montagne così alte.
2) E’ RIDICOLO che un professore che insegna metodologia della storia non abbia stilato una bibliografia dei testi utilizzati!
Dal momento che ero là alla presentazione so che rispose: “I soliti libri”.
E disse (e scrisse) che non si erano usate riviste e periodici senonché citò un articolo di rivista (ovviamente senza indicare testata o altro) sul funzionamento di quelle bombole. La domanda era fatta da Angelo Recalcati, bibliofilo e antiquario nonché alpinista.
E quando io chiedi della certezza delle quote mi rispose che erano state misurate con il GPS: nel 2003, non nel 1954, e basandosi sulle descrizioni di allora… In sala ci fu qualche risatina per l’assurdità della risposta.
Queste cose, chissà come mai, non vengono mai ricordate da nessuno quando si parla dei “Tre Saggi”: chapeau (parafrasando Silene Bubbolina)…
Per quanto riguarda Maraini, a quanto mi è dato di ricordare, nonostante l’età il suo contributo alla Relazione finale fu piuttosto vivace, e non si trattò affatto di una lettura fugace e di una firma.
Alla conferenza stampa non ero presente. Risponderà, se vorrà, il citato “professore di metodologia della storia”. Rilevo tuttavia che, in chiusura al volume “K2, una storia finita”, il professor Luigi Zanzi parla di “una copiosissima letteratura alpinistica” in merito alla questione K2 e cita, in merito ai fatti connessi alla vicenda degli ultimi giorni della spedizione italiana del 1954, una bibliografia essenziale di otto libri e cinque articoli, oltre ad altri tre volumi di inquadramento storico-fotografico. E ciò con la seguente premessa: “Non è questa la sede opportuna per un regesto bibliografico: si ritiene, tuttavia, opportuno segnalare qui alcuni testi soltanto nell’intento di aiutare il lettore a meglio comprendere da differenti punti di vista le questioni trattate dalla Relazione dei Tre saggi”. Inoltre ricordo che, all’interno della Relazione di Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi, sono contenuti numerosi rinvii bibliografici.
Per quanto mi riguarda, dopo aver esaminato per molti mesi i documenti ufficiali della spedizione italiana (credo di essere l’unico che ha avuto l’opportunità di farlo) e aver intervistato i principali protagonisti delle fasi finali della scalata, continuo a rimanere sulle mie posizioni di sempre. Posizioni che coincidono totalmente con i risultati della Relazione citata poco sopra. Infine, a proposito della mia recensione al libro su Walter Bonatti, ribadisco l’intenzione di non voler cambiare una sola virgola rispetto a quanto da me scritto.
Roberto Mantovani
Sia come amico di Walter Bonatti, sia come uno dei “Tre saggi”, ancorché non voglia cadere nel gioco di chi vuole riaprire polemiche in punto alla vicenda Bonatti-K2-CAI, ritengo di dover intervenire in replica all’intervento di Marco Vegetti.
1) L’intento pretestuosamente polemico di chi ritiene di dover “smitizzare” la “menata” dei “Tre Saggi” è così manifesto che si commenta da sé: precisamente quale tentativo di suscitare di nuovo polemiche in punto alla vicenda Bonatti-K2-CAI, cioè in punto ad una storia che, invece, è propriamente una “storia finita”.
2) Comunque non è accettabile che si cerchi di seminare zizzania con presupposizioni false; ecco, dunque, alcune repliche:
2.a) Fosco Maraini, quando collaborò all’elaborazione della Relazione dei “Tre Saggi” non era affatto “sul letto di morte”; il suo contributo si è articolato in una discussione critica approfondita sia con me, sia con Alberto Monticone; il dialogo di riscontro critico tra i “Tre Saggi” è stato incessante e continuo, nella più aperta partecipazione reciproca;
2.b.) non sto ad esibire le molteplici salite in Himalaya da me fatte attraverso molteplici spedizioni, sempre realizzate in “stile alpino”, anche a quote assai alte, anche se non mai così alte come gli 8.000 (quota non raggiunta mai nemmeno da Fosco Maraini); la documentazione di tali mie spedizioni sarà pubblicata in un libro di imminente edizione;
2.c) ho chiarito largamente a suo tempo, in occasione della presentazione ufficiale, come la Relazione dei “Tre Saggi” non avesse come suo fondamento metodologico un riscontro filologico su testi letterarî (pubblicati come libro o come articolo di rivista periodica) che non sarebbe stato corretto considerare “fonti” in senso storiograficamente appropriato (del che si è dato esplicito conto anche nel testo della Relazione);
2.d) in occasione della presentazione ho fatto un riferimento ad articoli di riviste scientifiche soltanto per un cenno alle discussioni tecniche inerenti l’uso delle bombole di ossigeno e non già per farne richiamo in annotazione al testo della Relazione;
2.e) con attinenza alla certezza delle quote d’altitudine rilevanti per la questione di che trattasi, ho precisato che attualmente (come già nel 2003) i controlli delle testimonianze a suo tempo rese dai protagonisti (nel 1954 e successivamente) con precise indicazioni descrittive di siti, possono effettuarsi con molteplici tecniche che consentono un’approssimazione assai soddisfacente. Non vi è nulla di assurdo, né di risibile nell’impiego di tali tecniche di controllo attualmente disponibili per verificare dichiarazioni rese a suo tempo in base a tutt’altri criterî.
3) Ricordo bene di essermi messo a disposizione, in occasione della presentazione ufficiale, per qualsiasi confronto critico con il pubblico: la mia dichiarazione non ebbe tuttavia alcun seguito. Non ricordo “risatine” (che comunque non avrebbero alcunché di memorabile); ricordo bene, invece, alcuni atteggiamenti di ostilità verso i “Tre Saggi” non appena dimostrai apertamente le gravi carenze della Relazione Desio che, nell’ambito del CAI, molti ritenevano fosse doveroso conservare intatta, come una sorta di “testo sacro”.
4) In ogni caso, il testo della Relazione dei “Tre saggi” pubblicato da Priuli & Verlucca nel 2007 è stato unanimemente riconosciuto di grande equilibrio e di puntuale rigore critico proprio anche dal punto di vista della metodologia storiografica da applicarsi alla ricostruzione di un’avventura “alpinistica”.
5) Da ultimo, mi pare importante evidenziare che quella che Marco Vegetti definisce “menata” dei “Tre Saggi” è servita finalmente (dopo lotte che si sono dovute affrontare ancora duramente nel 2004 in seno al CAI) a far sì che un’istituzione come il CAI non fosse più depositaria di un documento di rendiconto, come quello redatto da Desio, del tutto carente di “verità storica” nei punti cruciali e tale che continuava a sollevare lo scherno del mondo alpinistico internazionale. La questione in gioco, che si è risolta con l’intervento dei “Tre Saggi”, è stata proprio quella di far sì che la “verità storica” fosse integralmente rispecchiata nella “Relazione Ufficiale” della spedizione italiana al K2. Era, questo, il provvedimento che, per anni, Walter Bonatti ha invocato inutilmente: egli tendeva non già a veder riconosciuto a sé il suo merito (che già tutto il mondo alpinistico internazionale gli aveva riconosciuto), ma a veder attestata la “verità storica” in punto alle modalità con cui la vetta del K2 era stata raggiunta da Compagnoni e Lacedelli. Purtroppo tale rivendicazione di “verità storica” effettuata da Bonatti è stata del tutto tralasciata dalla rievocazione di Roberto Serafin, tutta mirata ad esaltare l’intervento del 1994 di Roberto De Martin. Proprio tale aspetto di rettificazione della “verità storica” fu posto in grande rilievo nella presentazione della Relazione dei “Tre Saggi” che fu fatta, con grande attenzione e competenza, dalla Società Geografica Italiana il 4 dicembre 2008.
In ogni caso, io non intendo più replicare ad interventi di tal sorta perché credo che si finisca col fare il gioco di quelli che vogliono seminare di nuovo zizzania e suscitare discussioni su Bonatti-K2-CAI.
Luigi Zanzi
Al “Saggio” Luigi Zanzi un grande saluto e un abbraccio.
Vinicio Vatteroni