A Timbuctu è di nuovo medioevo

di Marco Aime* – Il medioevo è ritornato a Timbuctu. È ritornato in gran parte del Sahara. Lungo le stesse piste di sabbia dove un tempo le carovane di cammelli trasportavano merci preziose e schiavi, oggi grossi camion e 4×4 trasportano droga, sigarette e migliaia di persone, incatenate al mito della ricchezza dell’Europa, che tentano di raggiungere le coste del Mediterraneo. Cambiano i mezzi, cambiano le merci, gli uomini sono sempre schiavi. Quante volte in passato Timbuctu è stata presa e razziata dai tuareg! Anche questa è un storia già vista e raccontata. Questa volta però c’è qualcosa di diverso.

Foto Marco Aime

Nei primi giorni di aprile gruppi armati di tuareg dell’MNLA, il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad, il territorio che comprende tutto il Mali nordorientale, sono entrati nella città.  I militari maliani di stanza nella caserma della città avevano già bruciato le loro divise e si erano vestiti in borghese, per confondersi con la popolazione locale. Gli unici colpi di arma da fuoco sono stati quelli sparati in aria durante i caroselli dei pick-up, lungo le vie della città dei 333 santi.

Sembrava una cosa indolore, ma così non è stata. Un paio di settimane dopo, sono entrati in città anche i gruppi armati di Ansar Dine (i difensori della religione). Anche loro tuareg, ma mentre l’azione dell’MNLA è dettata da aspirazioni politiche, quella dell’Ansar Dine si svolge interamente all’insegna del jihad e all’imposizione della shaaria. Al comando di Iyad Ag Ghali, leader storico delle ribellioni degli anni Novanta e poi convertitosi al salafismo, questi tuareg provengono dalla Libia, dove erano stati armati e addestrati da Gheddafi per la sua difesa personale. Fin dall’inizio si sono avvicinati moltissimo ai terroristi della AQMI (Al Qaida nel Maghreb Islamico), con cui sembrano avere stretto un’alleanza, nonostante l’opposizione del MNLA.

Entrati a Timbuctu, i guerriglieri integralisti hanno saccheggiato tutti i bar, distruggendo non solo i depositi di birra, ma anche ogni bevanda che richiamasse l’Occidente. Anche i negozi sono stati depredati delle loro merci, prima che i jihadisti si insediassero nell’aeroporto, all’ingresso sudoccidentale della città. In pochi giorni è stato imposto il velo a tutte le donne e anche alle bambine. Le scuole sono state chiuse, tranne quelle coraniche e le banche svuotate. È anche iniziata la caccia ai pochi bianchi rimasti, alcuni dei quali sono stati aiutati a fuggire dai tuareg dell’MNLA.

Nel frattempo la popolazione ha iniziato a fuggire e ad abbandonare la città. Sembra che meno del dieci per cento degli abitanti di Timbuctu sia rimasta: gli altri hanno preso la via della capitale, molti hanno passato il confine e si sono stabiliti nei campi profughi in Burkina Faso e Niger.

Tutto questo nella più totale assenza dello Stato, i cui protagonisti hanno avviato un triste balletto di responsabilità. I militari golpisti, che l’8 aprile avevano deposto il presidente Amadou Toumani Touré, non sono stati in grado di gestire la situazione. L’esercito, male armato e poco addestrato, ha subito cocenti sconfitte e copiose perdite nei primi scontri con i rivoltosi, dotati di armi molto più moderne, arrivate dalla Libia. Le elezioni previste per il 29 aprile sono state rinviate e per il momento il governo è retto dal presidente dell’Assemblea nazionale Diouncounda Traoré.

E Timbuctu? Laggiù, isolata, la città mitica che tanto ha fatto sognare generazioni di esploratori e viaggiatori, sta vivendo l’ennesima invasione. Non è una novità in fondo. Nel corso della sua storia Timbuctu ha visto avvicendarsi diversi padroni.

Si tratta dell’ennesima invasione destinata a passare o forse c’è qualcosa di diverso. Timbuctu è sempre stata una città aperta, ma oggi l’integralismo religioso, peraltro già serpeggiante da qualche tempo, rischia di spingerla nell’isolamento totale. I tuareg, che avevano riscosso numerose simpatie nel mondo occidentale, sia per il loro fascino, sia per le aspirazioni all’autonomia, stanno perdendo consenso, mescolandosi nel calderone del terrorismo di Al Qaida. Il lungo sogno di una patria tutta loro rischia di trasformarsi nell’incubo di un califfato fondato sulla shaaria. Intanto la città si svuota. Quanti faranno ritorno?

* Marco Aime, scrittore e antropologo, insegna antropologia culturale presso l’Università di Genova. Ha condotto ricerche inAfrica occidentale (Benin, Burkina, Camerun, Mali, Togo) e sulle Alpi.

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