di Linda Cottino * Cominciamo subito con una spolveratina di verve polemica, ché quando si parla di montagne e alpinismo è parte del gioco. Pensate che coincidenza; esattamente l’8 marzo, con un tempismo stupefacente per le poste italiane, nella mia buca delle lettere è stata recapitata una delle deliziose cartoline del Museo nazionale della Montagna di Torino, in cui si annuncia l’inaugurazione imminente di una mostra dal titolo: Le innamorevoli donne delle nevi.Ebbene, la mia prima reazione, per essere gentili, è stata di stizza. Vi chiederete il perché. In fondo il titolo è accattivante e l’immagine della cartolina, ve l’assicuro, è bella. Eppure, il pensiero che tra tutti i temi possibili sia stata scelta la seduzione (il sottotitolo recita proprio «Montagne e seduzione in copertina») mi fa letteralmente imbestialire.

C’è tutto un universo da indagare, poco o nulla declinato al femminile; penso all’avventura, all’alta quota, alla ricerca dell’exploit, alle scalate in solitaria… Non sono forse questi orizzonti che potrebbe essere appassionante raccontare da un punto di vista inconsueto, cioè quello delle donne?
Non che mi sia sentita molto meglio quando la sudcoreana Oh Eun Sun ha piantato il vessillo sul suo quattordicesimo 8000, diventando così nel 2010 la prima donna ad aver completato la scalata delle montagne più alte della Terra. In quel caso, saranno stati gli spostamenti in elicottero da un campo base all’altro o la constatazione che all’impresa, per quanto pregevole, mancasse il minimo spunto epico o esplorativo, mi ero sentita mortificata più che orgogliosa.
Negli anni mi sono convinta che parlare di alpinismo femminile ha i suoi limiti. Quasi si trattasse di una riserva protetta da studiare, tutelare, valorizzare. Quando le donne si sono espresse al loro massimo, ciò si è inscritto nella storia delle montagne esattamente com’è accaduto per gli uomini. Penso, tra le tante, ad alcune nostre contemporanee come Silvia Metzeltin, Catherine Destivelle, Lynn Hill, Wanda Rutkiewicz, Silvia Vidal o Nives Meroi; e lascio fuori le atlete delle competizioni di arrampicata sportiva o su ghiaccio, poiché di puro sport si tratta, con le sue regole e le sue location, che non sono la montagna.
Ma c’è una ragione che da sola può giustificare lo studio e il racconto dell’alpinismo femminile. Ed è l’interesse per la memoria. A scandagliare il mare di cime salite nella breve storia alpinistica, si scopre una galleria di donne, abili e audaci, nascoste sotto il burka virtuale della storia maggiore. Un lavoro di ricerca e divulgazione che vale tanti 8 marzo.
Linda Cottino è una giornalista professionista. Ha alle spalle una lunga esperienza di attività editoriale, ha diretto la rivista Alp dal 2002 al 2009 e ora fa parte della redazione del canale web-tv Alp Channel. È autrice di alcuni saggi sull’alpinismo femminile e del libro Qui Elja, mi sentite?, in cui ricostruisce la drammatica vicenda di una cordata di donne dell’ex Unione Sovietica sul Pik Lenin nel 1974.
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Ho ricevuto anch’io la cartolina in questione. Anch’io, al primo istante, ho avuto pensieri simili a quelli espressi qui sopra da Linda. Possibile, mi dicevo, che continuino a esistere due scale separate, due differenti piani di tonalità, due mondi paralleli che spesso sembrano quasi non toccarsi? Ma, subito dopo, ho pensato che forse non è tanto importante una cartolina come questa. In fondo da chi l’abbiamo ricevuta? Da un museo. E per giunta da un museo che possiede archivi gonfi di quintali di cartoline (e di cartelloni) soprattutto dell’epoca tra le due Guerre. E’ dunque nell’ordine delle cose che da questo museo emani un certo gusto rétro.
Continua invece a esistere, eccome, il problema evocato sopra. Cosa dovrebbe succedere per iniziarsi una vera inversione di tendenza? Mah. Uomini e donne salgono insieme sulle montagne da ormai svariati decenni. Ma si direbbe che non basta. Forse, il giorno in cui comparisse una storia dell’alpinismo femminile (o anche dell’alpinismo generale, ma con i giusti spazi per quello femminile, per quegli spazi evocati qui sopra) si farebbe un primo passo nella giusta direzione. Naturalmente dovrebbe trattarsi di una storia che non ricerca le figure amorevoli, ma di una storia approfondita, razionale, di ampio respiro, come se ne sono viste alcune nel passato. E, inutile dirlo, sarebbe una gran bella cosa se questa storia venisse scritta da una donna.
Davvero suggestiva la proposta di Roberto Aruga su una possibile storia dell’alpinismo di ampio respiro, che affronti questa affascinante attività da tutti i punti di vista. Chissà che affresco prenderebbe forma, dagli inaspettati risvolti culturali e sociali; se scritta da una donna, in più, potrebbe sul serio “suonare” diversamente. Invece, sul gusto rétro che un museo è comprensibile emani, da un lato, sì, hai ragione Roberto, è verosimile; io rimango però convinta, soprattutto quando dal chiuso delle sale si esce e si comunica attraverso immagini e parole con il mondo di fuori, che le scelte possano emanare comunque un profumo di novità.