
di Roberto Mantovani – «La salita del futuro». L’avevamo battezzata così, trent’anni fa, l’interminabile cavalcata di Renato Casarotto sul Trittico del Frêney, al Monte Bianco. Una dopo l’altra, in sequenza, l’alpinista vicentino aveva salito, senza averle mai percorse in precedenza, la via Ratti-Vitali sulla parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, la via Gervasutti-Boccalatte sul Pic Gugliermina, e infine il Pilone Centrale del Frêney e la vetta del Bianco. Il tutto in 15 giorni, dal 1° al 15 febbraio 1982, senza mai rientrare a valle, in totale autonomia. Partenza dalla Val Veny e arrivo a Chamonix, con uno zaino di 40 chili. 2150 di arrampicata su difficoltà che, d’estate, viaggiano tra il TD e il TD+, e poi enormi dislivelli in salita per raggiungere gli attacchi, per gli spostamenti, per le discese. I cronisti dell’alpinismo di quegli anni parlavano di enchaînement, ma Renato non voleva; preferiva che si parlasse di “trittico”. E non era una questione di lana caprina, né una sottigliezza semantica: ci teneva a rimarcare la distanza con la filosofia dei concatenamenti in velocità. Quella strada, in segreto, Casarotto l’aveva sperimentata, ma la velocità per la velocità gli sembrava una stupidaggine, un’attività senza sbocco. Un cul de sac, diceva. Provare, comunque, l’aveva provata, prima di rifiutarla. Come quella volta che, partito dai prati della Val Veny alle 9 in punto del mattino, era sbucato sulla vetta della Noire de Peutérey a mezzogiorno. Tre ore tonde tonde, con tanto di testimoni più che attendibili. Però lui aveva tenuto la notizia per sé, non gli andava di vantarsi di una cosa di cui non andava fiero. E dire che, nel mondo alpinistico, c’era un sacco di gente pronta a giurare che Renato fosse un alpinista lento…
Era capitato anche dopo la vicenda del Frêney. Dicevano che quella era una salita fuori moda, che la si sarebbe potuta risolvere in molto meno tempo. Peccato che chi, poco dopo, partì lancia in resta per dimostrarlo abbia fatto velocemente ritorno con le pive nel sacco.
Ma c’era chi aveva capito perfettamente la portata dell’avvenimento. Gian Piero Motti, sulla cui capacità di valutare correttamente fatti e novità dell’alpinismo non è lecito discutere, a proposito del Trittico scriveva: «È un’impresa fantastica, degna della grande tradizione non solo dell’alpinismo ma di tutta l’Avventura umana nel senso più ampio».
Frugando tra i miei quaderni dell’epoca, ho scovato un appunto che avrei poi utilizzato per scrivere un articolo. Proprio a casa di Renato, dopo una lunga intervista, a caldo, avevo scarabocchiato velocemente una frase, che ho faticato a ricostruire (quanto a calligrafia non sono mai stato un drago). Diceva: «È una cosa che sconcerta. E non solo perché nel 1982 è appena concepibile, perché è il massimo per ora realizzabile sulle Alpi, o perché ancora è stata portata a termine in solitaria, in stile alpino e senza collegamenti con il fondovalle. Siamo piuttosto in presenza di una concezione nuova, che in qualche modo sembra finalmente ricollegare l’alpinismo alla storia, annullando la frattura di significato venutasi a creare tra le prime salite e il fenomeno delle ripetizioni in serie delle grandi vie. È il ritorno alla circolarità del tempo, che ripropone nuovamente sentieri appena imboccati e mai percorsi per intero. Casarotto sembra essersi riappropriato di un filo conduttore da tempo perduto».
Scusate, è orribile citare se stessi. Ma tutti sappiamo che la memoria individuale non è mai una fotografia esatta delle realtà, e che dopo tanto tempo è facile aggiungere al ricordo nuovi dati e informazioni che fanno invece parte del presente. Meglio tornare alle fonti originali, dunque. In ogni caso la citazione mi è servita per ricordare che, giusto trent’anni fa, nel grande laboratorio dell’alpinismo è stata realizzata un’immane opera d’arte. In copia unica, e non imitabile.
4 comments
Molto bello.
Vale sempre la pena rileggere un tuo grande articolo nella RdM, La Lunga via verso l’infinito da 15 giorni nell’ombra del Frèney o ricordare ai meno vecchiotti la polemica con Messner:: “mi spiace parlarne ora che è morto, ma tecnicamente Casarotto aveva dei grossi limiti… ” e la difesa tua e di Gobetti.
Non che serva per rimarcare la portata del ‘trittico’ ma Casarotto quelle tre vie non le aveva mai fatte prima.
Grande Renato e grazie a Mantovani per ricordarcelo così!
S
L’epopea di Renato negli anni ’70 e ’80 fu come un ciclone che scosse fino alle fondamenta un ambiente alpinistico tradizionalista, un po’ asfittico, e anche poco aperto alle novità. Molti non riuscirono neppure a capire la portata delle salite di Casarotto e, come sempre capita, si trincerarono dietro le critiche da bar sport o lo scetticismo, preferendo attaccarsi ad una virgola invece di provare a guardare oltre il proprio naso. La storia dei limiti o dell’inadeguatezza di Renato ad alta quota, invece, nacque in occasione della spedizione internazionale al K2 nel 1979, quella che inventò (ma solo in via teorica) la “Magic Line”. A distanza di tanti anni, vorrei evitare di tornare sui retroscena della vicenda o, tantomeno, fare della dietrologia. Per confutare certe affermazioni di quel periodo è sufficiente dare un’occhiata alle prestazioni successive di Renato alle altissime quote, partendo dal Broad Peak Nord, per continuare con il McKinley e finire con il tentativo solitario sul K2. Chi vuol saperne di più su Casarotto, sappia che in qualche biblioteca forse si può ancora trovare il numero speciale di “Momenti d’alpinismo” (il n. 85 – aprile 1987 della “Rivista della Montagna”), che dedicammo a Renato. Scritto a caldo, di getto, nell’autunno del 1986, uscì nella primavera successiva e costituisce, credo, uno dei pochi tentativi di riflettere su un alpinista e un’attività alpinistica all’epoca poco compresa perché fuori moda e lontano dalle tendenze dominanti in quel periodo.
Davvero grazie a Stefano Lovison per il suo commento. R.M.
Avevo 13 anni ma ricordo benissimo quell’impresa; Renato Casarotto faceva sognare e rileggere del suo alpinismo fa sognare anche oggi a distanza di tanto tempo.
Grazie
Sentire delll’epica impresa che ha compiuto mi commuove. Un grande tributo a Renato