Dopo la prima mezz’ora di “Dune”, e di fronte alla prospettiva di dovermelo sorbire per altre due ore, ho incominciato a pensare all’antico detto “sbagliare è umano, perseverare è diabolico”. Perché Denis Villeneuve mi aveva già deluso nel 2017 con un sequel di “Blade Runner” neanche lontanamente paragonabile all’originale, e lo ha fatto anche questa volta con il pretenzioso rifacimento di un film con lo stesso titolo girato nel 1984 da David Lynch, a sua volta ispirato all’omonimo romanzo di fantascienza di Frank Herbert uscito nel 1965.
II romanzo di Herbert vendette milioni di copie e vinse i prestigiosi premi Nebula e Hugo. Il film di Lynch fu tra i primi a fare largo uso di effetti speciali, ma fu un mezzo flop al botteghino anche se oggi alcuni critici lo stanno rivalutando. Con il suo “Dune” Villeneuve ha puntato molto sulla computer grafica e su un cast stellare – Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Zendaya, Javier Bardem, Oscar Isaac, Jason Momoa, Josh Brolin, Charlotte Rampling – dimenticandosi però di tutto il resto. E il risultato, a dispetto delle arti magiche del protagonista, degli scontri all’arma bianca e delle astronavi che sfrecciano sul deserto reso insidioso dai vermi della sabbia, è visivamente piacevole, ma alla lunga noioso, e alla fine irritante. Una boiata galattica, che per di più si interrompe sul più bello, aprendo la strada a un sequel di cui francamente non si sente la necessità.
Quest’ultimo “Dune”, però, un merito ce l’ha. Per lanciarlo, in questi giorni è tornato nella sale anche un documentario di Frank Pavich sul visionario regista cileno Alejandro Jodorowsky, che negli anni Settanta fu il primo a pensare a una trasposizione cinematografica del romanzo. Non trovò mai i finanziamenti per realizzarla. Ma le sue idee, la sceneggiatura e gli splendidi bozzetti del disegnatore francese Moebius ispirarono tutti i successori.
gbg