E’ bella la lettera che Bob Dylan ha indirizzato all’accademia svedese dopo la controversa decisione di non partecipare alla cerimonia di consegna del Nobel per la letteratura. Per quello che dice, e anche per quello che rivela del personaggio e del processo creativo che lo ha portato a scrivere alcune delle più belle canzoni della storia della musica.
Qui trovate il testo integrale. Ma la parte più interessante è quella finale, dove affronta il tema della creazione artistica. Eccola.
Ho iniziato a pensare a William Shakespeare, la grande figura letteraria. Pensava a se stesso come a un drammaturgo. Il pensiero che stesse scrivendo della letteratura non avrebbe potuto entrare nella sua testa. Le sue parole furono scritte per il palco. Destinate ad essere recitate, non lette. Quando stava scrivendo l’Amleto, sono sicuro che stesse pensando a un sacco di cose differenti: “Chi sono gli attori più adatti per questi ruoli?” “Come dovrebbe essere messo in scena?” “Voglio veramente ambientarlo in Danimarca?”. La sua visione creativa e le sue ambizioni erano senza dubbio in cima ai suoi pensieri, ma c’erano anche le questioni più banali da affrontare. “Il finanziamento è a posto?” “Ci sono abbastanza buoni posti a sedere per i miei finanziatori?” “Dove posso procurarmi un cranio umano?” Scommetto che la cosa più lontana dalla mente di Shakespeare era stata la domanda: “È letteratura, questa?”.
Quando ho iniziato a scrivere canzoni, da adolescente, e anche quando ho iniziato a raggiungere una certa fama per le mie abilità, le mie aspirazioni per queste canzoni non si spingevano molto lontano. Pensavo che sarebbero state ascoltate nelle caffetterie e nei bar, forse più tardi anche in posti come la Carnegie Hall, il London Palladium. Se pensavo veramente in grande, forse avrei potuto immaginare di incidere un disco e poi ascoltare le mie canzoni alla radio. Era questo il vero grande riconoscimento nella mia mente. Incidere dischi e ascoltare le tue canzoni alla radio significava raggiungere il grande pubblico, e questo avrebbe poi permesso di continuare quello che ti eri proposto di fare.
Beh, ho fatto quello che ho deciso di fare da molto tempo, oramai. Ho fatto decine di dischi e suonato in centinaia di concerti in giro per il mondo. Ma sono le mie canzoni il centro vitale di quasi tutto quello che faccio. Sembra che abbiano trovato un posto nelle vite di molte persone, attraverso molte culture differenti, e sono grato per questo.
Ma c’è una cosa che devo dire. Come artista ho suonato per cinquantamila persone e ho suonato per cinquanta persone, e vi posso dire che è più difficile suonare davanti a cinquanta persone. Cinquantamila persone hanno un’unica identità, a differenza di cinquanta spettatori. Ciascuna persona ha una individualità, ciascuna di loro è un mondo a sé. Possono percepire le cose in maniera più chiara. La vostra onestà e il modo in cui è collegata alla profondità del vostro talento è messa alla prova. Il fatto che il comitato che assegna il Nobel sia così ridotto per me è di grande valore.
Ma, come Shakespeare, anch’io spesso sono impegnato a perseguire i miei sforzi creativi e devo fare i conti con tutti gli aspetti delle questioni banali della vita. “Chi sono i migliori musicisti per queste canzoni?” “Sto registrando nello studio giusto?” “Questa canzone è nella tonalità giusta?”. Alcune cose non cambiano mai, anche in 400 anni.
Non ho mai avuto il tempo di chiedere a me stesso, “Le mie canzoni sono letteratura?”.
Quindi ringrazio l’Accademia svedese, per aver avuto il tempo di prendere in considerazione questa domanda, e, alla fine, per aver fornito una risposta così meravigliosa.
Gli atteggiamenti di Bob Dylan fuori dal palco possono essere considerati stravaganti. Quelli sul palco possono sconcertare per la fredda determinazione nel proporre la sua musica senza alcun cedimento alla nostalgia o alle esigenze dello spettacolo. Ma non si può negare che la voce sempre più rauca del menestrello del rock sappia parlare al mondo come pochi altri hanno saputo e sanno fare. E che dietro le sue canzoni ci sia un personaggio di notevolissimo spessore.
In questo senso la lettera per il Nobel non fa che confermare quanto i lettori di un libro poco noto di Dylan, “Chronicles – Volume 1” già sapevano. Pubblicato nel 2004, e portato in Italia da Feltrinelli nel 2005, il libro avrebbe dovuto avere un seguito nei volumi 2 e 3, di cui per ora non ci sono tracce. Resta comunque una lettura di straordinario interesse per chiunque guardi alla musica come a una avventura intellettuale da non confondere con i lustrini scintillanti dello star-system e le strategie commerciali delle grandi case discografiche. Quali altri cantanti si sarebbero chiusi per mesi in biblioteca per consultare i fogli ingialliti dei quotidiani americani dell’Ottocento e del Novecento? Un Bob Dylan giovanissimo lo ha fatto, perché considerava necessario capire il paese per scrivere le sue canzoni.
Molti, dopo Dylan, hanno cantato il il disagio e le contraddizioni del mondo. Pochi lo hanno fatto con la sua lucida e a volte sgradevole consapevolezza. Lui solo ha saputo farsi simbolo. Ed è per questo che il suo Nobel non è soltanto meritato. Vale di più.