Un divano a Tunisi

Leggero, a tratti discontinuo e con qualche personaggio non risolto, come a volte accade nelle opere prime, “Un divano a Tunisi” della regista franco-tunisina Manele Labidi Labbé è tuttavia un film che vale la pena di vedere per esorcizzare con un sorriso il ritorno del Covid e per capire qualcosa di più di una Tunisia che gli europei conoscono quasi soltanto come porto di partenza dei barconi di migranti.

La bella attrice iraniana Golshifteh Farahani, che ha dovuto abbandonare il suo paese ed è diventata una star di Hollywood grazie a Ridley Scott, interpreta Selma, una squattrinata psicoanalista che dopo essersi laureata in Francia decide di tornare nel suo paese natale e apre uno studio in un quartiere popolare della capitale. Il successo è immediato: le turbolente vicende della primavera araba hanno sconvolto abitudini e costumi, e molti non hanno saputo adattarsi aIla nuova realtà di un paese dove il lavoro manca, la polizia è onnipresente, la burocrazia corrotta soffoca lo spirito di iniziativa dei singoli.

Sul divano di Selma, sotto l’occhio severo di un ritratto di Freud modificato con un fez rosso, si alternano una parrucchiera intraprendente, ma frenata da un difficile rapporto con la madre, un imam in crisi di identità, un panettiere che sogna di fare l’amore con tutta una serie di dittatori arabi, un ex detenuto politico che teme di essere ancora controllato dal regime. A Selma, dopo la disapprovazione iniziale, si rivolgono anche alcuni parenti in crisi di identità, e di lei si innamora un  poliziotto troppo ligio al dovere, che rimette tutto in discussione quando scopre che Selma non ha l’autorizzazione per esercitare in Tunisia. 

Nel film ci sono momenti di irresistibile umorismo – Selma e il poliziotto si incontrano quando lui le fa l’alcol test annusandole l’alito perché non ci sono palloncini a causa dei tagli del budget – e altri che invitano a più serie riflessioni. A volte i due piani sembrano scollegati, ma il risultato, nel complesso, è gradevole. 

gbg

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