Tante opere sono strettamente collegate all’esistenza dei loro autori: la lista dei capolavori di Almodóvar non si sottrae all’equazione arte/vita, anzi. Oggi più di ieri. Nel film del 2019, il monologo di Asier Etxeandía (Alberto Crespo) è pura poetica, alla stregua delle dichiarazioni di Antonia de San Juan (Agrado) in “Todo sobre mi madre” (1999). Sono passati vent’anni e Pedro ha smontato le mille storie inventate della sua vita per raccontare la sua. “Dolor y Gloria” è un’opera dal passo sicuro ma lento, è maestosa, è lavoro dissonante (gli umori provocati sono contraddittori) come solo questo regista, il più grande di Europa, sa fare. Accenni vanno alle prove degli attori: tutti sanno che lavorare con Almodóvar è entrare nella storia del cinema: danno il massimo, sono il massimo. Pedro è ancora l’autore di battute come “¿puedo hacer un peto?” in “Pepi, Luci…” (1980) ma la sua vena creativa ora è Consapevolezza e Dolente Dignità, Umore Malinconico che ha rinunciato per sempre ai simboli di Albrecht Dürer (il suo cinema non sarà mai un’acquaforte cinquecentesca!) e gioca ancora con mille oggetti colorati (tanto arredo da cucina Dolce e Gabbana) per rappresentare una vita quasi psichedelica ma sobria, l’Almodóvar maturo, un uomo vero, un uomo di 69 anni. Ogni amore, ogni malattia hanno inciso sulla sua anima e sono diventati pagine rimarchevoli di cinema. In questo film, Pedro gioca con i fantasmi della sua famiglia (Julieta Serrano è una Jacinta bizzarra e strepitosa; Penélope è generosa e virtuosa come sempre), con lo spettro della crisi artistica (il litigio via cellulare durante una retrospettiva provinciale), con la povertà della sua infanzia (la grotta, il fiume), la nota mala educación della sua infanzia cattolica (la prova di canto). Pedro è Fellini e Truffaut, è Bergman e Woody Allen ipocondriaco e serioso… ma vince la prova (il confronto) ed è un Classico per eccellenza, è se stesso (ed è anche i suoi epigoni) nella libertà di raccontare senza senso di colpa le sue dipendenze (la vanità, le droghe), per una volta nel non-raccontare ma far parlare di lui (oggi, quasi pirandellianamente) i suoi personaggi, i suoi oggetti, i suoi attori, la sua cantante preferita (Chavela). Chi è oggi Almodóvar? È quel bambino che si innamora del corpo nudo di un giovane muratore di 21 anni; è l’eterno viandante alla ricerca (ora, senza frenesie) delle forme più originali e forti del desiderio (ci ha sempre fatto leggere, ad inizio e fine dei suoi film, il nome della sua casa di produzione, “El Deseo”). “Un amore basta a salvare un amore che muore?”, si chiedono due volte nel corso di “Dolor y Gloria” i personaggi dell’opera. Se l’amore è desiderio perenne e talento che resiste (quello di Pedro può avere appannamenti ma, credetemi, resiste), allora la risposta è sì. Tutto rinasce. Mina lo canta, in una scheggia del film. E la signora Mazzini ha sempre saputo il fatto suo: per questo, per noi privilegiati e per Almodóvar, è Madre della Patria. Pedro te quiero (come i sanitari Roca di tanti anni fa).
Girolamo de Miranda