Non capita spesso di uscire da una sala cinematografica con gli occhi lucidi e una grande rabbia in corpo per l’ ingiustizia del mondo, perché il cinema militante corre il rischio di essere troppo prevedibile e didascalico per coinvolgere davvero lo spettatore. Ma per fortuna l’ottantatreenne regista inglese Ken Loach continua a crederci, e ci ha regalato l’ennesimo capolavoro di una carriera costellata di premi e di riconoscimenti.
“Sorry, We Missed You” è un pugno nello stomaco, una denuncia potente degli spietati meccanismi che alimentano la gig economy, la scintillante economia digitale capace di portare nelle nostre case in meno di ventiquattro ore un pacco ordinato in rete, ma anche di stritolare le persone che la alimentano. Loach li racconta attraverso le vicende della famiglia Turner: padre, madre, un figlio adolescente e ribelle e una bambina che fa del suo meglio per aiutare gli altri. Tutti, come è nello stile di Loach, interpretati da splendidi attori non professionisti che rivivono sullo schermo parti della loro vita.
Il padre Ricky, dopo anni di lavori non garantiti, decide di mettersi in proprio, convince la moglie Abby a vendere l’auto che le serve per il suo lavoro di assistenza agli anziani e compera a rate un furgone per le consegne a domicilio. Si illude di non dipendere più dagli altri, ma scopre che il contratto di lavoro autonomo firmato con un grande magazzino informatizzato prevede orari e regole capestro che rischiano di mandare in frantumi la sua vita e il rapporto con i famigliari.
Ogni film di Ken Loach, figlio di operai, è anche un atto di amore nei confronti delle fasce deboli di una società che ha scelto di fare del profitto la misura di tutte le cose. Restituisce onore e dignità a operai impoveriti dalla deregulation, emarginati, immigrati. Fa capire che un mondo migliore è possibile, se si ha la forza e il coraggio di lottare. Anche per questo andare a vedere “Sorry, We Missed You” è quasi un dovere.
gbg