TFF, mecenate cercasi

Il pubblico che spesso ha preso d’assalto le sale delle proiezioni facendo registrare il tutto esaurito, giovani di ieri che frequentano la rassegna fin dai primi anni con gli altri che si sono aggiunti strada facendo, e accanto i giovani di oggi che l’hanno appena scoperta: il Torino film festival ha segnato un’altra bella edizione. Gli spettatori hanno gradito l’eterogeneità di temi e di stili messa insieme da Emanuela Martini, per il secondo anno alla direzione e da molto tempo nel gruppo di esperti. Ma, preso atto con soddisfazione del nuovo successo, ora bisogna guardare avanti: quello di Torino è certamente tra i festival più importanti in Italia e in Europa: da noi è al terzo posto dopo Venezia e Roma. Ma chi snobba quello della capitale, lo colloca al secondo posto. E chi vuole esagerare, a parte il divismo che alimenta gli altri due e le loro ingenti risorse, per interesse strettamente cinematografico lo vede come festival numero uno! 

Ma ora Torino, dopo avere raggiunto l’età adulta e la maturità, deve porsi un altro obiettivo: non accontentarsi più della “simpatia” e delle “complicità” che gli riservano gli addetti ai lavori, e diventare davvero un “grande festival”.

Dunque, un bilancio positivo. Il pubblico, con i 200 titoli del programma ha mostrato di apprezzare anche gli ospiti, chi più chi meno presentato e giustificato da motivazioni di stretta osservanza cinematografica: non il divismo fine a se stesso o presenze talvolta pretestuose come spesso avviene in altri festival, ma cineasti aderenti alla linea editoriale del Tff. “Giustificato” perfino Paolo Sorrentino, che era qui soltanto per ritirare un premio alla carriera in natura, 100 bottiglie di vini pregiati, dedicato alle terre Unesco di Langhe-Roero-Monferrato. Il regista napoletano era stato presidente della giuria del festival qualche anno fa e aveva girato a Torino una buona parte de “Il divo”: insomma, un quarto di torinesità ce l’ha anche lui. E ora qualcuno lo vorrebbe come “direttore ospite” l’anno prossimo e se non avrà impegni, come ha dichiarato, potrebbe esserci

Apprezzate dal pubblico anche le scelte di Gabriele Salvatores direttore ospite “uscente”, con i 5 film classici, qualcuno tra i capolavori assoluti, che da giovane lo avevano indotto a fare il cinema e che poi lo hanno accompagnato nella sua ispirazione di regista.

Chi ha deluso, ma solo i suoi fan, giacché altri fanno volentieri a meno del suo “verbo” e di alcuni suoi film, è stato Nanni Moretti, che è venuto per il restauro di “Palombella rossa”: un saluto con qualche parola di circostanza, la promessa di un colloquio con il pubblico alla fine del film, e poi si è eclissato, lasciando la sala col favore delle tenebre e non facendosi più vedere. Non sarebbe certo mancata qualche domanda sul referendum, la richiesta di pronunciare appena un monosillabo, viste le indomite posizioni rese pubbliche da altri suoi colleghi. Ma se si è voluto sottrarre proprio a questo, ha fatto bene ad andarsene – serpeggia infatti una sana stanchezza per questi tizi che fanno politica senza sporcarsi le mani – anche le sue militanze di qualche anno fa avrebbero autorizzato qualche speranza. E chissà, forse non lo ha voluto fare a causa del suo snobismo e il suo iper-ego: visto che ogni tanto viene fuori qualche regista o attore che dichiara, ebbene io non dichiaro: magari “mi si nota di più”…

Di notevole interesse i film in concorso, così come tanti delle varie sezioni, con uno spaccato sul mondo giovanile dei vari continenti. Certo, alcuni denunciano un certo generoso velleitarismo delle opere prime e qualche ambizione eccessiva: eppure, proprio questi aspetti danno il segno di un’urgenza di dire e di raccontare che è il tratto delle nuove generazioni di cineasti. Così è accaduto per l’unico italiano in concorso “I figli della notte”, firmato da Andrea De Sica. Visto l’argomento – un collegio esclusivo per giovani di ottima famiglia che vivono reclusi, segnati da un destino che li vuole l’élite di domani – si entra in sala carichi di aspettative, ci si aspetta di vedere un film ma se ne vede un altro. Capita. De Sica, comunque, mostra di avere la stoffa per fare meglio e questo suo primo film a chi lo vede senza condizionamenti può anche piacere.Qivu, 

Eccellente il film cinese che ha vinto il festival, “The donor” (Il donatore): il giovane regista Zang Qiwu ha certamente ancora molto da dire, dopo aver messo in campo la miseria, l’abbandono in cui si vive in una delle tante periferie del suo paese. In un quartiere malsano, un povero meccanico con moglie e un figlio bravo negli studi, per sopravvivere e far continuare l’università al ragazzo, è costretto a vendere un rene a un ricco parente. Ma subito dopo, fermo, misurato, silenzioso, non cede a un’altra inaccettabile richiesta, un vero violento ricatto. Con mano delicata, senza urla, senza quelle musiche usate solo per indurre lo spettatore a commuoversi, senza una parola e un’immagine in più, una denuncia nella Cina dei nuovi ricchi che mentre si sviluppa ai ritmi che conosciamo, lascia indietro tanti.

Il festival, dunque, può segnare un ennesimo successo. E tuttavia ora, mentre deve consolidare gli ottimi risultati raggiunti, deve porsi altri traguardi. Giacché se c’è qualcosa che non può permettersi il festival di Torino è quella di credere anche per una sola edizione di poter vivere in qualche modo di rendita. Lo possono fare altri festival, ma non questo, e una sempre possibile caduta sarebbe micidiale. Il direttore Emanuela Martini è soddisfatta e lo sono anche gli spettatori e quanti valutano la sua direzione; il suo contratto prevede un’altra edizione. Poi, o viene confermata o lascia e si cambia. I suoi risultati e le sue alte competenze finora autorizzano ulteriori rinnovi. Ma si dà il caso che sono passate 10 edizioni dalla nomina di Nanni Moretti, che, anche capace direttore, portò al festival attenzioni da ogni dove. Fu un momento di svolta: l’apprezzatissimo festival del compianto Rondolino provava a diventare “uguale ma diverso”, cinefilo, certo, ma anche un po’ più aperto al resto del potenziale pubblico. E così accadde. Dopo Moretti si volle continuare con i direttori star, Gianni Amelio e Paolo Virzì, per poi promuovere al vertice quella che era stata per anni essenziale numero due, appunto la Martini.

A tutt’oggi Torino non ha bisogno di un direttore diverso da lei. Quel che serve a chi lo guida oggi o che potrebbe dirigerlo domani sono le risorse. Gli esigui fondi, 2 milioni e 300 mila euro, ridotti rispetto ad anni precedenti, non permettono neanche di provare a pensare a qualche ospite di grande popolarità, magari di oltreoceano, che risponda alla linea cinefila di Torino. E certo non ne mancano. Peccato però che i loro spostamenti abbiano costi proibitivi per la manifestazione torinese. Il festival che ora sembra avere bisogno in qualche modo di reinventarsi, può farlo anche così, con la possibilità di invitare chi vuole, come possono fare Roma e Venezia, con i loro 8-10 milioni e oltre. Un miracolo, per Torino, avere ottenuto certi risultati con quella piccola somma. E non è neanche una questione di concorrenza con gli altri due festival. C’è invece da evitare un grande rischio: restare fermi. Rischio avvertito da molti, che viene fuori anche indirettamente con certe nuove proposte che al momento sembrano prive di efficacia. Come quella di estendere il festival oltre il centro città, verso le periferie, o di promuovere una nuova iniziativa legata al Tff a giugno, o ancora, cambiare stagione e portare tutta la manifestazione in quel primo mese dell’estate. Con un altro rischio, quello di rimanere schiacciata tra Cannes, che si tiene a maggio, e Venezia, settembre. Ma non è neanche da sottovalutare che Torino non è un festival balneare, non essendolo peraltro neanche la città. E che il suo fascino risiede proprio nella stagione tra autunno e inverno. Come Berlino, che si svolge a febbraio, impensabile a luglio.

Quanto alle periferie diventate ormai luoghi feticcio delle più diverse amministrazioni, di ben altro hanno bisogno che di un festival del cinema “decentrato”. Tanto più che il cuore della manifestazione, il vero festival, non può che restare in centro. Strade dissestate, marciapiedi invasi da erbacce, illuminazione approssimativa, ambienti che tanto ricordano la vecchia Berlino est, obbrobri architettonici che altro che da “rammendare”, come dicono pudicamente certi architetti, però abbiamo qualche briciola del Torino film festival. Altissimo il rischio di cadere nella demagogia.

La vera, grande esigenza della manifestazione è non solo qualche soldo in più dagli enti pubblici, ma l’arrivo di un vero, grande sponsor, al di là dei pur benemeriti sostenitori locali, che per fortuna finora non si sono sottratti all’obbligo morale di continuare a contribuire. Qualcuno che, appassionato di cinema e affascinato dalla città, voglia legarsi a un festival così singolare. E serve anche qualcuno in grado di cercarlo da qualche parte tra i continenti, un ambasciatore che sappia come e dove muoversi, con autorevolezza. Magari chissà, lo si può anche trovare. Intanto, l’appuntamento con il prossimo Tff a fine novembre 2017.

Nino Battaglia

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