Prigione 77

Siamo nel 1976 in Spagna. Francisco Franco è morto da pochi mesi, e nel paese si respira un’aria nuova, ma le leggi e le carceri sono ancora quelle della dittatura. Il contabile Miguel, accusato forse ingiustamente di un grave ammanco, entra nella prigione di Barcellona in attesa di un processo che non arriva mai, e scopre un mondo fatto di violenze e prevaricazioni, dove l’unica legge valida è quella del più forte.

Essendo uno dei pochi che sa scrivere, partecipa alle lotte del Copel, un comitato per i diritti dei prigionieri che si batte per migliorare le condizioni di vita nelle carceri e ottenere un’amnistia estesa anche ai detenuti comuni. La solidarietà dei compagni gli dà la forza per resistere alle sadiche violenze dei secondini, ma la strada verso la libertà resta lunga e difficile.

Con “Prigione 77” Alberto Rodríguez si dimostra ancora una volta un regista di talento. Dopo averci regalato nel 2014 un piccolo gioiello come “la Isla Minima”, un cupo poliziesco ambientato nelle paludi del Guadalquivir, torna ancora una volta su un nervo scoperto della Spagna post-franchista, le modalità di una difficile transizione verso la democrazia, e lo fa senza mai cadere nel didascalico. Ne “La isla minima”, ad indagare su una inspiegabile serie di delitti erano due poliziotti male assortiti, uno pieno di speranze, l’altro vecchio e malato, con un passato di torturatore di regime. In “Prigione 77” il detenuto giovane, interpretato da Miguel Herrán, si confronta e si scontra con il disilluso compagno di cella, interpretato dallo stesso attore che nell’altro film impersonava il poliziotto torturatore, un intenso Javier Gutiérrez. Il risultato è una claustrofobica vicenda piena di tensione, dove il mondo esterno irrompe nel tempo sospeso del carcere soltanto attraverso gli slogan delle manifestazioni a favore dei detenuti e i colori dei cartelloni pubblicitari che si intravedono dalle celle.

gbg

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