Nei boschi innevati della Bosnia i cacciatori uccidono un lupo e catturano un cucciolo di uomo, un ragazzo selvaggio, che cammina a quattro zampe, non parla e digrigna i denti tentando di morderli.
Siamo nel 1988, e di Haris, come viene battezzato nei verbali di polizia, nessuno sa nulla. Alla fine si decide di rinchiuderlo in un orfanotrofio di Belgrado, tra compagni che lo deridono per il suo comportamento animalesco e educatori che tentano invano di stabilire un contatto con lui. Lo salverà l’amicizia di Zika, che a differenza di Haris un padre ce l’ha, ma è stato rifiutato. Quattro anni dopo, però, la guerra civile jugoslava sconvolgerà il fragile equilibrio che il ragazzo era riuscito a costruire con il microcosmo dell’orfanotrofio e con la civiltà.
“Figlio di nessuno”, dell’esordiente Vuk Rsumovic, grazie anche alla straordinaria interpretazione del giovanissimo Denis Muric, ha ricevuto numerosi riconoscimenti nei festival internazionali, e meriterebbe maggiori attenzioni da parte del pubblico. Sono evidenti i riferimenti a un capolavoro come “Il ragazzo selvaggio” di Truffaut, autore molto amato da Rsumovic che lo cita anche nella scelta delle inquadrature, e a opere interessanti come “Nell” e “L’enigma di Kaspar Hauser”. Ma nell’opera del regista serbo la riflessione sui limiti della civiltà, su ciò che è umano e ciò che non lo è, acquista una forza dirompente quando la bestialità della guerra riporta Haris – e noi con lui – nei boschi dove era cresciuto libero e forse felice.