Gabriele Salvatores e Caterina Caselli; Nanni Moretti e Rita Pavone; quindi il regista greco-francese Costa Gravas, Gianni Amelio, Paolo Sorrentino e film con attori come Al Bano, Romina Power, Gianni Morandi, Adriano Celentano, Mario Tessuto accanto a un monumento imprescindibile della storia del cinema come “Intolerance” di David W. Griffith; e poi ancora, cinema horror e cinema punk.
Non c’è che dire: un vero mucchio selvaggio la platea di ospiti e il programma del numero 34 del Torino film festival, che si celebra dal 18 al 26 novembre. Dopo aver lasciato qualche delusione con i 5 componenti della giuria, tra i quali il direttore della fotografia americano Ed Lachman e l’attrice israeliana Hadas Yaron, tutti cineasti di grande valore ma sconosciuti, senza un nome che attirasse l’attenzione dello spettatore medio, ora il direttore Emanuela Martini vuole stupire con effetti speciali.
E certo, mettendo insieme tutti quei nomi, centra in pieno l’obiettivo. Dopo essere stato per più di venti anni festival del rigore assoluto, compresi gli ospiti che univano una certa popolarità al loro grande cinema, ora non solo viene confermata la doppia veste cinefila e popolare, ma si va anche oltre: ora siamo al festival eclettico, o ancora meglio dadaista. Un festival in cui c’è di tutto, niente escluso.
Salvatores è il direttore ospite, loro lo chiamano “guest director” forse per venire incontro a quella dozzina di inglesi di madrelingua interessati al festival che così non devono fare neanche il minimo sforzo per capire le parole direttore e ospite, mentre l’altra dozzina di massaie di Lucento alle quali è anche diretta la manifestazione e magari pronte a farsi sedurre da qualche titolo, che imparino l’inglese. Al premio Oscar per “Mediterraneo”, datato 1992, ma un premio Oscar è per sempre…, la Martini ha affidato il compito di scegliere 5 film che hanno segnato la sua vita di spettatore e di regista. I film di Salvatores non sempre, e raramente, hanno lasciato il segno, ma quelli che ha scelto sì: “Jules e Jim”, Truffaut; “Blow-up”, Antonioni; “If…”, Lindsay Andersen; “Alice’s restaurant”, Penn; “Fragole e sangue”, Stuart Hagmann. Certi film hanno portato molti di noi a non poter fare a meno del cinema, e questi scelti da Salvatores stanno benissimo nella lista: grazie a lui, l’occasione di vederli sul grande schermo, in edizioni integrale e in lingua originale.
Da quest’anno anche il festival di Torino vuole “valorizzare il territorio”: ed ecco che Salvatores viene portato anche ad Alba, che ha un suo festival, dove dovrà parlare di un tema con un titolo che più accattivante non si poteva: “il cinema e la poetica del territorio”.
Paolo Sorrentino, altro premio Oscar, La grande bellezza, un marchio che lo accompagnerà per tutta la vita, regista Oscar senza se e senza ma, qualunque film faccia, anche se ben lontano dalla grande bellezza dei suoi esordi, L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, viene invece per ritirare 100 bottiglie di vini di pregio, naturalmente piemontesi. E’ un nuovo premio, e anche qui c’entra il “territorio”: ha un titolo bello lungo, “Premio Langhe-Roero e Monferrato”, per la gioia dei titolisti dei giornali; qualcuno nel declamarlo aggiunge anche Unesco, ma forse è meglio non infierire. A Sorrentino verrà consegnato durante un cocktail di beneficienza, ma il festival lo chiama in americano, “charity”, dato che “serata benefica” si dice anche nelle bocciofile ed è meglio non fare confusione.
Nanni Moretti è un convinto estimatore appassionato del festival, salvo rare eccezioni, dovute a impegni che non poteva lasciare, è venuto sempre, ed è appena il caso di ricordare che è stato anche direttore della svolta “popolare”. Viene per la proiezione di “Palombella rossa” restaurato. Magari non si negherà a chi vorrà chiedergli una parola sul referendum, sì o no, o sul nuovo presidente americano Trump. Del resto il suo impegno politico degli anni scorsi è noto: girotondi, interviste e dichiarazioni a briglia sciolta; peccato che quell’impegno lo abbia messo da parte da quando l’uomo politico che secondo lui incarnava il “male assoluto”, è andato scivolando lentamente verso l’uscita di scena; O forse, non ci sono stati più motivi, e a tutt’oggi non ce ne sono, per organizzare un bel girotondo.
Caterina Caselli, Rita Pavone… Il festival le ha invitate per il documentario di Steve Della Casa “Nessuno mi può giudicare”, il titolo della canzone della Caselli diventato film nel ’66. Erano, appunto, gli anni ’60, e nel cinema italiano impazzava il genere “musicarello”: una canzone, il cantante di turno in veste di attore, un po’ di vicende sentimentali diluite attorno al tema della canzonetta, e il film era fatto. Se ne girarono a decine, molte decine, in quel tempo, anche al ritmo di 10, 15 all’anno. Quando si dice l’industria del cinema! Era un cinema dichiaratamente di serie B, senza infingimenti e senza complessi. Si faceva e basta, per fare cassa e cassetta. E vale la pena di ricordare che a quell’epoca si contavano 600-700 milioni e più di spettatori all’anno nelle sale. Nei nostri anni, e da molto tempo, quando si arriva a 100 milioni è festa grande. Un cinema, quello del musicarello, che è lo specchio di un’epoca, un come eravamo che racconta un’Italia ancora ingenua, spensierata nonostante i problemi, ancora immersa nel miracolo economico, con istruzione sommaria e perfino sotto certi aspetti vagamente analfabeta.
Insomma, tutto fa festival. Tra i punti di forza e tra le occasioni da non perdere, in un programma che conta oltre 200 titoli, l’omaggio e il “premio Adriana Prolo” a Costa Gravas con la proiezione di “Z, l’orgia del potere”, del ’69, sulla dittatura dei colonnelli in Grecia, con Riccardo Scamarcio impegnato nella “laudatio” del regista. “Il cacciatore” restaurato di Michael Cimino, scomparso l’estate scorsa. “Intolerance” di Griffith sempre da rividere, girato nel 1916, due anni dopo “Cabiria” di Pastrone, col quale è debitore il regista americano. L’anteprima di “Sully” di Clint Eastwood. E per gli appassionati del genere, i film della notte horror e sparsi qua e là nel programma, e quelli del movimento punk che compie 40 anni. E ancora, i film della retrospettiva “La terra vista dal cinema”, tra visioni apocalittiche, catastrofiche, e fantascienza, in gran parte film degli anni ’60 e ’70, quando questi primi decenni del duemila erano “il futuro”. E non ultimi, i film in concorso, le opere alle quali è, o dovrebbe essere, dedicato il Torino film festival: 15 film da mezzo mondo, registi come sempre quasi tutti esordienti, promesse del cinema di domani, con le loro urgenze e il loro sguardo sul mondo giovanile che ci sta attorno; c’è anche un italiano, soltanto uno quest’anno, Andrea De Sica, figlio di Manuel, nipote di Vittorio, con un film inquietante, “I figli della notte”: Al di là degli ospiti e dei grandi nomi in grado di promuovere qualche titolo sui giornali e in Tv, il vero festival è qui, nel concorso.
Nino Battaglia