Con “Parasite” il regista coreano Bong Joon-Ho ha trionfato nella notte degli Oscar ottenendo quattro statuette, compresa quella per il miglior film, mai andata prima a un film straniero. Così i distributori italiani si sono finalmente decisi a farci vedere “Memorie di un assassino”, l’opera che nel 2003 lo avevo reso famoso in Corea e che in Italia non circolò nonostante i premi vinti al Torino Film Festival.
Meglio tardi che mai, perché anche questo è un bellissimo film, crudo e a volte disturbante come è nello stile di Bong Joon-Ho, ma anche molto curato dal punto di vista formale e sorprendente per la capacità di alternare senza forzature registri diversi, dal poliziesco classico alla denuncia sociale.
La trama è ispirata alla storia vera di un serial killer che nel 1986 uccise molte donne in un piccolo distretto rurale della Corea del Sud. Indagano due poliziotti locali che non esitano a ricorrere alla tortura per estorcere le confessioni dei sospettati, e un investigatore arrivato dalla capitale che usa metodi più ortodossi. Ma tutti e tre devono fare i conti con le pressioni della stampa, l’assenza di indizi e la reticenza dei possibili testimoni, ostili nei confronti della polizia che viene usata essenzialmente per mantenere l’ordine e reprimere ogni forma di dissenso.
Sullo sfondo ci sono l’aspro confronto tra le due Coree, che Bong Joon-Ho evoca riprendendo le esercitazioni di pronto soccorso in una scuola femminile, e la industrializzazione forzata del paese, simboleggiata dalle enormi fabbriche che deturpano i campi di riso. L’inseguimento notturno di un sospettato in una cava dove gli operai con il volto coperto dalle mascherine si muovono come automi è un momento di grande cinema, che vale più delle improbabili scene girate con tanti mezzi e poco talento in alcuni polpettoni hollywoodiani.
Ottimi come sempre gli attori, tra cui spicca il disilluso detective Song Kang-ho, che abbiamo già visto in “Parasite” nella parte del padre.
gbg