Se non lo avete già fatto, tuffatevi nella magia del cinema con “The Fabelmans” di Steven Spielberg. Due ore e mezza di puro piacere per gli occhi grazie a una fotografia meravigliosa che vi riporterà indietro nel tempo, ai favolosi anni Cinquanta e Sessanta. E per la mente, perché la storia è avvincente nella sua semplicità, e, come sempre accade nelle opere del regista di maggior successo al mondo, ripropone un tema universale, che in questo caso è il contrasto tra la normalità degli affetti famigliari e gli eccessi dell’arte.
I Fabelmans sono in realtà gli Spielberg, come spiega lo stesso regista in una breve prologo: una famiglia ebrea dove il padre è un pioniere della nascente informatica e la madre una pianista che ha rinunciato alle sue ambizioni per crescere i quattro figli. Nel 1952 l’unico maschio, Sam, viene portato per la prima volta al cinema a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille. Ha otto anni, e resta così impressionato dalla scena dell’incidente ferroviario da ricrearla molte volte con il suo trenino, riprendendola con una piccola cinepresa. Da quel momento il cinema diventerà la sua ragione di vita, e da autodidatta ne studierà tutte le tecniche, i trucchi e gli effetti speciali, mettendoli in pratica nei suoi filmini amatoriali. Una passione divorante che lo sosterrà nei momenti difficili della separazione tra i genitori e lo aiuterà a sopportare l’antisemitismo dei compagni di scuola.
Il film segue Sam/Steven fino ai diciotto anni, sette anni prima che l’inquietante “Duel”, girato in economia in appena tredici giorni, dia inizio alla sua folgorante carriera. E si conclude con una scena breve e potente: un incontro con un grande vecchio del cinema che è quasi un passaggio di consegne. Nelle mani di qualsiasi altro regista sarebbe apparso presuntuoso. Ma Steven Spielberg se lo può permettere.
gbg