Quando Alice Zeniter ha scritto “L’arte di perdere”, nel 2017, aveva soltanto 31 anni ed era al suo quarto romanzo. Gli altri non li conosco, ma questo è molto bello, e ha meritato di vincere il Prix Goncourt des Lycéens, che l’ha fatta conoscere al grande pubblico. E’ un libro elegante, maturo, e a tratti commovente.
“L’arte di perdere”, pubblicato in Italia da Einaudi, racconta la storia di tre generazioni di algerini che hanno perso il loro paese e la loro identità, senza riuscire a costruirsene una nuova nella Francia che li ha ospitarti.
Alì, il nonno, è un contadino analfabeta, che si è arricchito a prezzo di grandi fatiche e nel suo villaggio sulle montagne è un uomo importante e ascoltato. Ha combattuto con onore per la Francia nella seconda guerra mondiale, ma assiste sgomento allo sgretolarsi della potenza coloniale francese e si ritrova coinvolto negli scontri tra le truppe coloniali e il Fronte di Liberazione Nazionale. Quasi senza rendersene conto, i suoi tentativi di preservare il villaggio dalle imposizioni degli integralisti che guidano la resistenza e dalle rappresaglie dei francesi ne fanno un “harki”, un collaborazionista, e alla vittoria del Fronte, nel 1962, deve lasciare in tutta fretta il paese con la moglie Yema e i figli.
E’ in Francia, prima nello squallore dei campi per i rifugiati, poi nei quartieri dormitorio per operai disprezzati e sottopagati, che Alì trascorre nell’amarezza i suoi ultimi anni. Ed è in Francia che cresce il figlio maggiore Hamid, fermamente deciso a dimenticare l’Algeria e gli orrori della guerra civile, ma troppo coinvolto nella storia famigliare per riuscirci davvero. Soltanto il trasferimento a Parigi, i moti studenteschi del maggio 1968 e l’amore per una donna francese gli daranno la spinta necessaria a chiudere con le angosce del passato.
Hamid ha quattro figlie. Una di loro, Naïma, è la terza protagonista della storia. Colta, intraprendente, emancipata, si sente pienamente francese e non sa nulla dell’Algeria perché il nonno è morto quando era ancora piccola e il padre non gliene ha mai voluto parlare. Ma si documenta quando deve andarci per lavoro, e quando finalmente ci arriva scopre un mondo che non è il suo, ma la affascina con atmosfere che non le sono completamente estranee. La visita al paese natale del nonno e del padre, nonostante i pericoli dovuti alla presenza dei ribelli islamici sulle montagne, conclude il racconto. Con il personaggio di Naïma, chiaramente autobiografico, Alice Zeniter cambia il registro narrativo, passa da una storia corale a una meditazione molto personale sul passato e sul significato che hanno le radici nella vita degli uomini. Sono pagine molto sentite, ma a mio parere un poco artificiose e meno interessanti delle altre. Forse l’unico punto del romanzo dove si sente la giovane età dell’autrice.
Battista Gardoncini