A 86 anni, quando non è impegnato a difendersi da denunce più o meno fondate per i suoi dubbi comportamenti privati, Roman Polanski continua a regalarci ottimi film. L’ultimo, “L’ufficiale e la spia”, è una fedele ricostruzione dell’affare Dreyfus, che scosse la Francia della Terza Repubblica tra il 1896 e il 1906.
Il capitano Alfred Dreyfus, di origini ebraiche, fu ingiustamente accusato di aver passato ai tedeschi informazioni militari riservate, degradato e condannato alla deportazione perpetua nell’Isola del Diavolo. Soltanto le caparbie indagini del colonnello dei servizi segreti Georges Picquart, che individuò il vero traditore, e una celebre lettera aperta dello scrittore Émile Zola al presidente della repubblica francese, che accusava ministri e generali di nascondere la verità per non mettere in imbarazzo le forze armate, portarono alla riapertura del caso e alla riabilitazione di Dreyfus. Ma ci vollero anni, e l’antisemitismo che permeava la società francese non si attenuò: molti continuarono a credere che Dreyfus fosse davvero coinvolto in un complotto ebraico per indebolire il paese.
Polanski costruisce la sceneggiatura insieme allo scrittore inglese Robert Harris, autore di un documentato romanzo sul caso Dreyfus pubblicata in Italia da Mondadori con lo stesso titolo. Di suo aggiunge una regia sobria nelle scelte stilistiche, ma coinvolgente nel ritmo del racconto, nella ambientazione storicamente ineccepibile e nella recitazione dei protagonisti, Jean Dujardin nella parte del colonnello Picquart e Lou Garrel in quella di un tormentato Dreyfus.
Ma “L’ufficiale e la spia” non è soltanto un bel film. Racconta anche e soprattutto il personale turbamento dell’uomo Polanski, che ha conosciuto il volto crudele dell’antisemitismo perdendo la madre in un campo di concentramento nazista, e sembra gridare al mondo che la vicenda del capitano Dreyfus, perseguitato dalle false accuse di una giustizia corrotta, non è poi così diversa dalla sua.
gbg