Il grande campione russo Michail Botvinnik diceva che gli scacchi sono l’arte che illustra la bellezza della logica, ed è vero, ma non si può certo sostenere che siano un gioco capace di entusiasmare le folle. E infatti i pochi film che sono stati girati sulla scacchiera, a parte “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergmann che parlava di tutt’altro, non hanno lasciato tracce nella storia del cinema.
È con grande curiosità, dunque, che ho guardato su Netflix le sette puntate della miniserie americana “La regina degli scacchi”, basata sulle vicende di Beth Harmon, una ragazzina orfana che vive in un severo istituto, scopre gli scacchi grazie a un bidello, e ne fa una ragione di vita. Dotatissima, arriva in pochi anni a sfidare i migliori del mondo, ma deve fare i conti con il suo passato e la dipendenza dai tranquillanti e dall’alcol.
I registi Scott Frank e Allan Scott, che sono anche tra i produttori, hanno saputo mantenere in equilibrio una storia che avrebbe potuto facilmente cadere nel melodrammatico o nello scontato. Invece le angosce della tormentata psiche della protagonista non disturbano, e trovano nell’ambiente competitivo degli scacchi il palcoscenico adatto. Il lungo viaggio che porta Beth dai tornei degli esordienti alle più impegnative competizioni nazionali e internazionali è anche il viaggio di una ragazzina che cresce, diventa donna, e alla fine scopre che gli scacchi non sono tutto.
“La regina degli scacchi” non è un capolavoro, e in alcuni punti ha la lentezza tipica delle serie televisive. Però si fa guardare per l’accurata descrizione della vita in provincia negli Stati Uniti degli anni Sessanta e per la recitazione della bella Anya Taylor-Joy, che interpreta Beth adulta, e di Marielle Heller, che interpreta la madre adottiva. E la sceneggiatura, grazie alla consulenza dell’ex campione del mondo Garry Kasparov, evita gli errori marchiani di altri film, che tanto infastidiscono gli appassionati del nobile gioco.
gbg