Capisco che senza inseguimenti e mirabolanti acrobazie Indiana Jones non sarebbe Indiana Jones, ma nel quinto capitolo della saga dell’archeologo più famoso del mondo gli autori hanno un po’ esagerato, con il risultato che l’adrenalina si trasforma presto in noia. Senza arrivare agli eccessi del tizio seduto in sala davanti a me, che a un certo punto ha incominciato a giocare con il telefonino, devo dire che “Indiana Jones e il quadrante del destino” mi ha deluso. E gli scarsi risultati al botteghino confermano che probabilmente il personaggio creato nel 1981 da Spielberg e Lucas ha fatto il suo tempo: nonostante gli encomiabili sforzi del nuovo regista James Mangold, gli spettatori più anziani e affezionati hanno la fastidiosa impressione di vedere scene già viste, mentre le giovani generazioni sono attratte da altri tipi di supereroi.
La trama è la solita: Indiana Jones è sulle tracce dell’Anticitera, una sofisticata macchina di calcolo costruita secondo la leggenda dal grande Archimede, e deve vedersela con un gruppo di fanatici nazisti convinti che l’oggetto abbia poteri sovrannaturali. Il film inizia nella Germania del 1944, con l’ottantenne Harrison Ford, ringiovanito dalla computer grafica, che insegue un treno carico di oggetti d’arte rubati e precipita da un ponte. Ma gran parte della storia si svolge nel 1969, nei giorni dello sbarco degli astronauti americani sulla Luna. Qui Ford sfoggia il suo vero volto e una forma fisica invidiabile, che lo rende credibile anche nelle scene d’azione. Nell’ordine: fuga a cavallo nei sotterranei della metropolitana, combattimenti a mani nude e con la classica frusta, inseguimenti su macchine, moto e motocarri a tre ruote, immersioni subacquee in antichi relitti infestati da fameliche anguille, esplorazione di grotte piene di insidie e di segreti. E, nel gran finale, un combattimento aereo che riporta il professore e i suoi nemici là dove tutto era iniziato.
gbg