Come dimostra il recente mezzo flop de “Il ritorno di Casanova” di Salvatores, l’idea di fare un film su un regista che sta girando un film non sempre funziona. Ma Nanni Moretti, con “Il sol dell’avvenire”, è riuscito a darle nuova linfa sfruttando alcuni degli ingredienti più caratteristici del suo cinema: il perfezionismo, la passione politica, le nevrosi temperate da un sottile umorismo. Un ritorno alle origini che ci voleva, dopo la prova non esaltante di “Tre piani”, basato sull’omonimo romanzo di Eshkol Nevo. Qui invece tutto è rigorosamente morettiano, dalle idiosincrasie per i sabot – se copri le dita, pontifica il protagonista, devi coprire anche il calcagno – fino alla condanna senza appello di Netflix, con i suoi insulsi prodotti “pensati per piacere in centonovanta paesi”.
Moretti è il regista Giovanni, impegnato nella realizzazione di un film sul 1956, l’anno dell’invasione dell’Ungheria ad opera dei carri armati sovietici. Un evento traumatico per i comunisti italiani, divisi tra chi giustificava l’invasione e chi invece la condannava. Silvio Orlando è Ennio, il giornalista dell’Unità che in qualità di segretario di sezione ha invitato a Roma un circo ungherese, e condivide l’angoscia dei suoi ospiti davanti alle drammatiche immagini degli scontri. Vera, interpretata da Barbora Bobulova, è la militante innamorata che cerca di convincerlo a prendere le distanze dal partito.
Giovanni, però, vive una profonda crisi esistenziale. La moglie Paola, che è da sempre la sua produttrice e ha il volto intenso di Margherita Buy, sta per lasciarlo e lo tradisce dal punto di vista creativo producendo il film pieno di gratuita violenza di un giovane regista emergente.
“Il sol dell’avvenire” è un film raffinato, intelligente e difficile, che piacerà soprattutto ai cinefili di mezza età nostalgici della sinistra. “Di tutti gli altri – dice Moretti attraverso Giovanni – non mi importa. Ma forse non è vero”.
gbg