“Il potere del cane” di Thomas Savage, da non confondersi con bestseller di Don Winslow che in Italia ha lo stesso titolo, uscì nel 1967 e consolidò la posizione centrale del suo autore nella letteratura americana. Racconta la storia di due fratelli che gestiscono un grande ranch nel Montana del 1924. Phil è un uomo colto, ma preferisce condividere la vita selvaggia dei suoi cowboy, sempre a cavallo per controllare le mandrie. George, riservato e di animo gentile, è apparentemente succube del fratello. I due dormono nella stessa stanza, nei letti gemelli che usavano da ragazzi. L’equilibrio si rompe quando George sposa la vedova Rose e la porta a vivere nel ranch con il figlio Peter, un ragazzo delicato e sensibile. Contro i nuovi venuti Phil inizia una guerra senza esclusione di colpi.
Affascinata dal romanzo, la raffinata regista neozelandese Jane Campion, Palma d’oro a Cannes nel 1993 con “Lezioni di piano”, ne ha realizzato una fedele trasposizione cinematografica, che in questi giorni si può vedere nelle sale e su Netflix.
Ne “Il potere del cane” mancano soltanto le sparatorie, sostituite dalla sottile violenza dei rapporti personali. Ma l’atmosfera del vecchio West permea tutto il film, anche se le immagini sono state girate in Nuova Zelanda. Ci sono i grandi spazi e le montagne, i cavalli e le mandrie in movimento, i dormitori fumosi dei mandriani, la casa padronale dove arriva il pianoforte di Rose, trasportato a braccia proprio come quello che rese famosa la Campion.
Splendidi gli attori, esaltati dalla non comune capacità della regista di mettere in evidenza la fisicità dei corpi e delle cose. Benedict Cumberbatch è un Phil tormentato dai suoi demoni, Jesse Plemons è il mite George, Kirsten Dunst, che nella vita reale è davvero la moglie di Plemons, una Rose fragile e dedita all’alcol. Peter, disposto a tutto pur di salvare la madre, è il giovane e efebico attore australiano Kodi Smit-McPhee.
gbg