Il mucchio selvaggio

L’estate è alle porte, e nelle sale cinematografiche, con pochi titoli nuovi e di qualità, è il momento delle repliche. Non sarebbe poi così male se gli spettatori avessero voce in capitolo nella scelta dei film da vedere o rivedere. Ma poiché questo non è possibile c’è l’estrema risorsa delle piattaforme di streaming. Sono sempre più numerose quelle “a consumo”, che non richiedono costosi abbonamenti e noleggiano i titoli in catalogo per somme modeste. 

Chili TV, che tra l’altro è nata per iniziativa di un gruppo italiano, è una di queste. Ed è su Chili che pochi giorni fa ho rivisto “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah. Tre euro e 99 centesimi ben spesi, perché il film è un capolavoro assoluto, che non sente il peso degli anni.

Peckinpah diresse questo western crepuscolare, che ridefinì i canoni del genere un po’ come stava facendo Sergio Leone in Italia, nel 1969. Era intriso di violenza, ma anche lirico e nostalgico di un passato dove – secondo la visione del mondo del regista – gli uomini erano veri uomini, il coraggio sfiorava l’incoscienza e l’amicizia virile contava più degli ideali e delle bandiere.

Peckinpah ebbe a disposizione un ottimo cast – su tutti William Holden nei panni del bandito Pike Bishop e Robert Ryan nei panni dell’ex compagno Deke Thornton, che gli dà la caccia – e lo diresse con maestria. Ma il punto forte e profondamente innovativo del film fu la regia: nelle sparatorie che aprono e chiudono il film l’uso di cineprese multiple piazzate in angoli diversi gli consentì un montaggio frenetico di stacchi velocissimi, che viene ancora oggi preso ad esempio nelle scuole di cinema.

Peckinpah beveva e l’abuso di droga lo portò alla morte nel 1984, a cinquantanove anni. Ma ebbe il tempo di dirigere altri grandi film, come “Sierra Charriba”, “Cane di paglia”, “L’ultimo buscadero”, “Getaway” e “Pat Garrett e Billy Kid”, con l’indimenticabile colonna sonora di Bob Dylan. E tutti meritano di essere rivisti.

gbg

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