Dieci anni fa moriva, per sua scelta, Mario Monicelli, maestro indiscusso della commedia all’italiana. Aveva 95 anni e 65 film all’attivo, da “Totò cerca casa” a “Le rose del deserto”, da “I soliti ignoti” a “L’armata Brancaleone”, da “La grande guerra” a “Amici miei” , da “Un borghese piccolo piccolo” a “Parenti serpenti”, e tanti altri. Alcuni si possono rivedere in questi giorni su PaiPlay, che gli ha giustamente dedicato una rassegna. Ma ormai li conosciamo a memoria.
Poco nota, invece, è “Maestro di che!”, una lunga intervista dove Monicelli racconta ad Alberto Puliafito e Johnny Palomba la sua vita, le sue idee sul cinema, le sue speranze e le sue delusioni. Ha già novantatré anni, ma dimostra una invidiabile freschezza di pensiero, e conferma la fama di “grande indignato” per i vizi degli italiani, che nei suoi film ha saputo mettere alla berlina con perfida ironia. Quaranta minuti di divertita intelligenza in una televisione che troppo spesso privilegia le chiacchiere insulse e la sguaiatezza di nani e ballerine.
Ma non è soltanto per questo che parlo oggi di Monicelli. C’è un punto, nella intervista, dove spiega che per lui, nato nel 1915, il cinema era soprattutto immagini in movimento, e che l’avvento del sonoro gli aveva rovinato la magia, aprendo le porte a un mondo nuovo, ma non necessariamente migliore. Non ho potuto fare a meno di ripensarci quando ho letto la notizia che la Warner, una delle più grandi case di produzione del mondo, ha deciso che nel 2021 tutti i suoi film andranno contemporaneamente nelle sale e sulla piattaforma di streaming HBO. La scelta prende atto di una situazione che è soltanto in minima parte legata all’emergenza covid. Il declino delle sale cinematografiche, già annunciato dal successo di giganti come Netflix e Amazon Prime, sembra purtroppo irreversibile. E noi che le amiamo dovremo farcene una ragione, proprio come Monicelli di fronte alla fine del cinema muto.
gbg