Per chi ha amato i suoi grandi film e ne conosce a memoria tutti i dialoghi e le inquadrature il documentario “Sergio Leone, l’italiano che inventò l’America”, in questi giorni nelle sale, è una scelta obbligata. Ma anche gli altri non se ne pentiranno, perché il giovane regista Francesco Zippel, già autore di una apprezzata biografia di William Friedkin, è riuscito nella impresa non facile di evitare i toni celebrativi, e di costruire un racconto solido capace di reggere l’attenzione dello spettatore per tutti i 107 minuti della proiezione.
Certo è stato aiutato dalla fama degli intervistati: non capita tutti i giorni di sentire parlare Quentin Tarantino, Steven Spielberg, Martin Scorsese, Damien Chazelle, Darren Aronofsky, Giuseppe Tornatore, Frank Miller, Robert De Niro, Eli Wallach, Jennifer Connelly, Carlo Verdone, un Clint Eastwood anziano e ancora riconoscente, e un commosso Ennio Morricone, intervistato poco prima della morte. Ma Zippel ha saputo fondere le loro testimonianze in un insieme coerente e teso, dove la figura di Sergio Leone, maestro nel raccontare storie senza tempo, serve da catalizzatore per una più ampia riflessione sulla magia del cinema e sulla sua capacità di farci sognare.
“Sergio Leone, l’italiano che inventò l’America” è stato voluto dai figli del regista Raffaella, Francesca e Andrea, che nel documentario raccontano con sobrietà la vita privata del padre, spezzata ad appena sessanta anni, nel 1989, da una malformazione cardiaca. Leone stava lavorando alla preparazione di un film sui novecento giorni dell’assedio di Leningrado. Visionario fino all’ultimo, cercava di mettere in piedi una coproduzione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, dove l’Armata Rossa avrebbe dovuto fornire i mezzi e le migliaia di comparse necessarie per le riprese. Le poche carte ingiallite che ci restano di quel progetto bastano per capire che sarebbe stato un altro capolavoro.
gbg