Gray non è Kubrick

Più di cinquanta anni fa Stanley Kubrick realizzò “2001 Odissea nello spazio”. Un capolavoro e anche un punto di riferimento per quasi tutti i registi che si cimentano con il genere fantascientifico. Non fa eccezione James Gray con “Ad Astra”, da poco nelle sale, che da Kubrick riprende esplicitamente l’idea di un lungo viaggio nello spazio il cui scopo ultimo non è l’esplorazione di mondi sconosciuti, ma la scoperta di quel che l’uomo nasconde dentro di sé e del senso della vita. Per l’appunto, una Odissea.

Brad Pitt è Roy McBride, un glaciale astronauta in grado di controllare le emozioni e di agire per il meglio anche nei peggiori pericoli. Ma ha un punto debole nel mai risolto rapporto con il padre Clifford, eroico esploratore di Marte e Saturno, perso nello spazio trent’anni prima nel corso dell’ambizioso progetto Lima, che doveva raggiungere Nettuno e da lì cercare tracce di vita nell’universo. 

All’improvviso da Nettuno arrivano misteriosi raggi cosmici che provocano devastazioni e morte sulla terra e sulle sue colonie lunari e marziane. Le autorità sospettano che il padre di Roy possa essere coinvolto, e chiedono al figlio di tentare di mettersi in contatto con lui. 

Roy raggiunge la Luna, che è interamente colonizzata, ma infestata da predoni che mettono a rischio gli spostamenti. Prosegue con qualche imprevisto per Marte, dove gli uomini vivono in impianti sotterranei, e da lì inizia un lungo e solitario viaggio verso Nettuno. Il resto non ve lo diciamo, anche se tutto sommato è intuibile.

“Ad Astra” non convince del tutto nella parte di introspezione psicologica, ma si fa guardare per la recitazione di Pitt e l’accurata ricostruzione degli ambienti, frutto anche della consulenza della Nasa. Gray ha dichiarato di avere voluto fare la più realistica rappresentazione possibile di un viaggio spaziale che si sia mai vista al cinema. Ma le meraviglie della computer grafica non reggono il confronto con la magia dei modellini usati a suo tempo da Kubrick.

gbg

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