Vedere “Gli orsi non esistono”, di Jafar Panahi, è un gesto quasi obbligato di solidarietà verso la coraggiosa protesta delle donne iraniane e verso la persona del regista, che a luglio è stato arrestato e dovrà scontare una vecchia condanna a sei anni di carcere. Troppo realistici i suoi lavori e troppo impietosa la sua descrizione della società per piacere alle autorità civili e religiose del paese. Di qui una condanna per propaganda contro il sistema, inizialmente sospesa a patto che Panahi non uscisse dall’Iran, non rilasciasse interviste e non facesse più film. Ma lui ha testardamente continuato a lavorare, e a presentare all’estero i nuovi lavori proibiti in patria, facendo tra l’altro incetta di premi.
“Gli orsi non esistono” è un film autobiografico. Il protagonista è lo stesso Panahi, nei panni di un regista che si è rifugiato in un piccolo paese di contadini vicino al confine turco per sfuggire alle attenzioni del regime. Da qui dirige a distanza, via internet, una troupe impegnata nella realizzazione di un film su due giovani che tentano di espatriare. Anche lui potrebbe farlo, ma rinuncia perché ritiene suo dovere restare in Iran e battersi per raccontare la realtà del paese. Scopre però che un conto sono gli ambienti intellettuali delle città, un altro i contadini delle province, chiusi nel conformismo del loro piccolo mondo, dove una fotografia scattata per caso può scatenare una incomprensibile violenza.
Il film è costruito sull’intreccio delle due storie, e Panahi è molto efficace nell’interpretare senza un filo di retorica il suo dolente personaggio. C’è però una evidente disparità tra la splendida e realistica descrizione della vita nel villaggio e la meno convincente parte cittadina, che volutamente disvela le tecniche della finzione cinematografica: alcune scene vengono ripetute e gli attori smettono di recitare per dialogare con il regista lontano. In ogni caso, un film da non perdere.
gbg