A quasi novanta anni Clint Eastwood continua a sfornare ottimi film, che raccontano vizi e virtù degli Stati Uniti dal singolare punto di vista di un libertario di destra, capace di sostenere Trump, ma anche di battersi in difesa dei diritti civili, dell’aborto e delle nozze gay. Con “Richard Jewell” prosegue nel filone biografico che ha caratterizzato i suoi ultimi lavori: storie vere di persone comuni che i casi della vita hanno messo in situazioni difficili, dove sono state costrette a prendere decisioni importanti per sé e per gli altri.
Il film ricostruisce il caso di un addetto alla sicurezza che durante le olimpiadi di Atlanta del 1996 si accorse della presenza di una bomba nell’area di un concerto e riuscì ad allontanare molti spettatori prima della sua esplosione, che provocò due morti e un centinaio di feriti. Inizialmente fu considerato un eroe, ma dopo qualche giorno venne sospettato dall’FBI di avere organizzato l’attentato per richiamare l’attenzione su di sé.
“Richard Jewell” è un duro atto di accusa nei confronti degli inquirenti, che indagarono a senso unico per incastrare il presunto attentatore, e dei media, che non ebbero scrupoli nel trasformare l’ ”eroe di Atlanta” in un mostro. Ed è anche una doverosa riparazione per i torti subiti da Jewell, un obeso bambinone cresciuto con il mito della legge e dell’ordine e l’unica ambizione di entrare in polizia.
Jewell, splendidamente interpretato da Paul Walter Hauser, non capiva perché tutti, dopo averlo osannato, volessero la sua rovina, e con il suo ingenuo comportamento alimentò i sospetti dell’FBI. In suo aiuto accorse il combattivo avvocato Watson Bryant, interpretato da Sam Rockwell, che riuscì a scagionarlo dopo una battaglia legale durata mesi. La vicenda, però, si concluse definitivamente soltanto nel 2003, con l’arresto e la confessione del vero attentatore. Jewell morì per un infarto nel 2007, a quarantaquattro anni.
gbg