A metà strada tra la fiction e il documentario, “Gigi la legge”, del regista Alessandro Comodin, è un film dove non succede niente, ma lascia nello spettatore la sensazione di avere visto molto.
Gigi è un vigile urbano di San Michele al Tagliamento. Il suo lavoro consiste in infiniti pattugliamenti in automobile per le strade del paese, tra villette ben curate, campi e fattorie. È quasi sempre solo, a volte con un collega. La routine – un documento da consegnare, un sopralluogo per un incendio di stoppie che non si trova – viene spezzata dal ritrovamento del cadavere di una ragazza travolta dal treno. Probabilmente si tratta di un suicidio, ma Gigi decide che vale la pena di indagare, e lo fa a modo suo, con i tempi lenti della provincia e la bonomia di una persona di animo gentile, capace di accettare con un sorriso anche le angherie di un superiore che non si vede mai, soprannominato “il fagiano”. Gigi si ostina a seguire gli andirivieni del matto del paese, fa domande apparentemente svagate agli amici, fuma sigarette in compagnia. Quando attraverso la radio di servizio gli arriva la voce dolce di una nuova collega che non ha mai visto di persona tra i due nasce una complicità che lo distrae dall’ obiettivo.
Alessandro Comodin è al suo terzo lavoro dopo “L’estate di Giacomo” e “I tempi felici verranno presto”, e ha sviluppato una tecnica di ripresa particolare, basata su lunghissimi piani sequenza e immagini fisse che escludono una parte della scena e a volte gli attori, presenti solo con la voce. Anche le riprese nell’auto di servizio sono costruite in modo da lasciare sempre lo spettatore nel dubbio sul numero dei passeggeri.
Detto così potrebbe sembrare che “Gigi la legge” sia un film per cinefili appassionati, poco adatto al grande pubblico. In realtà vale la pena di vederlo anche soltanto per la simpatia del protagonista Pier Luigi Mecchia, che nella vita reale è lo zio del regista e un vero vigile.
gbg