Scorre via veloce e divertente, “Il primo anno” di Thomas Lilti, approdato in questi giorni nelle sale italiane, a due anni dalla sua uscita in Francia. Ma è anche una amara riflessione sulle distorsioni di un sistema educativo nozionistico e sui meccanismi spersonalizzanti dei test che molte facoltà a numero chiuso, non soltanto francesi, usano per selezionare gli studenti.
Benjamin e Antoine vogliono diventare medici. Figlio di un chirurgo e apparentemente svagato il primo, gran lavoratore divorato dalla passione il secondo, decidono di studiare insieme per affrontare gli esami di ammissione. Frequentano le lezioni, studiano per quindici ore al giorno, si sottopongono a estenuanti simulazioni basate su quiz a risposta chiusa, con i minuti contati per rispondere a decine di domande che con la vera medicina hanno poco a che fare. Uno dei due va in crisi e l’amicizia sembra spezzarsi, ma alla fine è l’altro ad aiutarlo a riprendersi, e insieme si ritrovano con tutti gli altri aspiranti medici in un’aula enorme, controllati a vista dai vigilantes per la prova che deciderà del loro futuro.
Il regista Thomas Lilti si era fatto conoscere con “Un medico di campagna”, un bel film che raccontava la difficile convivenza tra un medico di paese anziano e malato e la sua giovane sostituta. Anche ne “Il primo anno” dimostra di avere un tocco delicato, che gli consente di superare il rischio della macchietta e quello opposto della denuncia sociale. I giovani attori Vincent Lacoste e William Lebghil lo aiutano a confezionare una storia dove le vicende individuali si integrano con quelle collettive, simboleggiate dalle centinaia di studenti che corrono da una parte all’altra della facoltà, si accalcano nelle biblioteche e nelle mense, e prendono d’assalto le bacheche con i voti. Tutte cose che Lilti conosce bene, perché ha studiato medicina e tra un film e l’altro torna alla professione.
gbg