Molti anni fa, in bancarella, mi è capitato di sfogliare un vecchio volume del Touring Club dedicato alla Spagna e illustrato con splendide immagini in bianco e nero. In piccolo, nel risvolto di copertina, c’era il nome del fotografo, Gianni Berengo Gardin. Ho scoperto così, quasi per caso, un maestro della fotografia, e da allora le sue opere hanno accompagnato la mia passione e ispirato i miei modestissimi sforzi di emulazione.
È con grande piacere, dunque, che ho letto “In parole povere”, la sua autobiografia per immagini curata dalla figlia Susanna e appena pubblicata da Contrasto. Un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni aspirante fotografo.
Berengo Gardin, nato nel 1930, racconta la sua infanzia scapestrata, la guerra, il fascismo, le alterne vicende di una famiglia che passa dai fasti di un lussuoso albergo di Santa Margherita Ligure alla gestione di un negozio di vetri di Murano a Venezia. Ed è a Venezia, la sua città, che muove i primi passi di fotografo amatoriale, incontra altri appassionati, e affina le tecniche e il linguaggio che gli aprono la strada per le prime mostre e le collaborazioni editoriali.
E’ il reportage che lo affascina, perché per lui “fotografare vuol dire soprattutto usare la macchina fotografica per indagare, conoscere, entrare nella vita delle persone, comprenderne i rapporti, gli equilibri sociali, lavorativi, di classe addirittura”. E più avanti, nel volume, spiega la sua tecnica, che ha poco a che fare con il tipo di macchina usata, i tempi, i diaframmi e gli obiettivi. “Quando fotografo un paese, grande o piccolo che sia, cerco sempre di partire dall’esterno: come è situato, arroccato su un monte o adagiato in una vallata. Cerco di comprendere dove si trova, come è costruito. Poi mi avvicino: percorro le strade, giro nelle piazze, vedo i negozi. Infine entro nelle case e fotografo gli oggetti e le persone che questi oggetti creano, maneggiano, usano. Il filo è questo: seguire un percorso logico, semplice, capace capace di rivelare il sentimento, magari si potrebbe dire l’anima, di un paese, una città, e forse anche una nazione. Così si può conoscere l’uomo”.
Ancora oggi, a novanta anni, Berengo Gardin non si separa mai da una piccola e maneggevole Leica, perché “quando esci di casa senza macchina c’è sempre qualche inquadratura che avresti voluto fermare sulla pellicola. Allora è meglio non rischiare”. Ed è così che nel corso negli anni ha costruito un monumentale archivio, pubblicato decine di libri, e lasciato un segno importante nella storia della fotografia mondiale, al pari di nomi come Cartier Bresson, Salgado, Koudelka, Erwitt, che sono stati tutti suoi amici insieme agli italiani Scianna, Dondero, Ghirri, Basilico e a tanti altri.
Per Berengo Gardin “fotografare comporta uno sforzo artigianale, al centro del processo c’è l’uomo con le sue abilità e le sue capacità anche manuali. Maneggiare apparecchi e obiettivi, sporcarsi con gli acidi in camera oscura è sempre stata una necessità per quasi tutta la mia carriera”. Per questo non ama il digitale che oggi ha quasi soppiantato la fotografia analogica, e che permette a molti di scattare con facilità “belle” fotografie.
“Ma le fotografie – spiega Berengo Gardin – non devono essere “belle”, devono essere “buone”, devono avere qualcosa da dire”. Forse per questo tra le migliaia di immagini delle grandi navi che solcano i canali di Venezia soltanto le sue, con il loro minaccioso bianco e nero, suscitano il giusto sdegno.
Battista Gardoncini
1 comment
Quanto mi piacerebbe una piccola Leica…. grazie del suggerimento ho acquistato in parole povere econcordo non dovrebbe mancare anche nella libreria di un quasi aspirante fotografo