Babylon a Hollywood

Niente vie di mezzo con Damien Chazelle. O piace o non piace. A me piace, e penso che “Babylon” sia un film da vedere nonostante le stroncature che alcuni critici spocchiosi gli hanno riservato. 

E’ vero, dura tre ore e otto minuti. E’ vero, alcune scene sono eccessive e a volte disturbanti. E’ vero, l’onirico finale può lasciare perplessi. Ma nonostante questo – anzi, forse proprio per questo – lo spettatore esce dalla sala con la sensazione di avere visto uno spettacolo degno di questo nome, che non si vergogna di regalare emozioni, avventure e sogni. Come sempre dovrebbe fare il cinema.

Siamo a Hollywood, nel 1926. Un elefante viene trasportato in modo rocambolesco nella villa di un famoso produttore, dove centinaia di invitati partecipano a un party a base di musica, sesso e droga. Nel gran trambusto che segue la giovane e disinibita Nellie LaRoy – la bella e brava Margot Robbie – viene notata, ottiene una piccola parte in un film muto e diventa una star. 

Ma Hollywood è alla vigilia di una rivoluzione: il primo film sonoro, “Il cantante di Jazz”, arriva nelle sale nel 1927 e il suo clamoroso successo cambia tutto: stronca carriere, ne crea di nuove, e trasforma il cinema degli esordi, tutto genio e sregolatezza, in una impresa commerciale che non lascia spazio alle improvvisazioni.

Attraverso le vicende di Nellie, del divo del muto Jack Conrad, interpretato da un monumentale Brad Pitt, e del giovane tuttofare messicano Manny Torres con il volto di Diego Calva, “Babylon” racconta questa trasformazione con l’aiuto di una brillante sceneggiatura, che alterna il registro comico a quello tragico, il grottesco al sentimentale.

Una citazione a parte, come sempre nei film di Chazelle, merita la colonna sonora, opera di Justin Hurvitz. E non è un caso che uno dei momenti emotivamente più forti di un film pieno di emozioni sia il tormento di un trombettista nero costretto dagli studios a scurirsi la pelle per sembrare ancora più nero.

gbg

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