Di Babij Jar avevo già sentito parlare. Un conto però è sapere a grandi linee che nel settembre del 1941 in quel burrone alle porte di Kiev i tedeschi, aiutati dai collaborazionisti ucraini, avevano ucciso decine di migliaia di ebrei, un altro è leggere il dettagliato resoconto di un testimone oculare di quel massacro e di quelli che seguirono, vittime non soltanto gli ebrei, ma chiunque fosse sospettato di opporsi alla occupazione, prigionieri di guerra, comunisti e rom, per un totale di oltre 100 mila persone. Per questo, Babij Jar di Anatoly Kuznekov, recentemente pubblicato da Adelphi, è un libro da non perdere, che rende giustizia alle vittime, smaschera i carnefici e non fa sconti neppure alla ottusa brutalità del sovietici vincitori. Che non a caso, dopo la guerra costrinsero l’autore a tagliare interi capitoli dell’opera, stravolgendola.
Ma andiamo con ordine. All’epoca dei fatti Kuznekov aveva dodici anni, Il padre comunista aveva seguito la ritirata delle truppe sovietiche, lui era rimasto a Kiev con la madre e i nonni, dove affrontò tutte le privazioni e i pericoli dell’occupazione.
Era un ragazzo sveglio, che combatteva la fame con piccoli commerci, furti e saccheggi, rischiando ogni volta la vita. Amava leggere, ed era curioso. Tutta la città sentiva l’incessante rumore delle mitragliatrici che arrivava da Babij Yar e preferiva ignorarlo. Lui no. Nascosto tra le rovine vide le colonne di uomini, donne e bambini che a colpi di bastone venivano ammassati come bestie nei recinti costruiti attorno al burrone. Vide che nessuno tornava indietro, parlò con una donna che era stata miracolosamente risparmiata perché aveva dimostrato di non essere ebrea, seppe quel che accadeva sull’orlo del burrone da uno dei prigionieri che i tedeschi in procinto di ritirarsi, nell’inutile tentativo di nascondere i loro crimini, avevano costretto a bruciare migliaia di corpi malamente sotterrati. Quel prigioniero, destinato a morire come tutti i suoi compagni, aveva trovato la forza di fuggire e di raccontare, e sarebbe diventato uno dei testimoni di accusa nel processo che seguì la fine della guerra.
Ma di Babij Yar , nonostante il processo e le condanne di alcuni dei responsabili, in Ucraina non si parlava volentieri: nessun ebreo era sopravvissuto, e troppi ucraini avevano collaborato con i nazisti, aiutandoli a catturare gli ebrei e svolgendo un ruolo attivo nei massacri. Quanto ai sovietici, ricordare i i massacri significava ammettere che l’Armata Rossa non era stata in grado di difendere i confini e la popolazione civile, che ai loro occhi aveva avuto la grave colpa di non essersi opposta con sufficiente fermezza agli invasori.
Nel 1965 Anatoly Kuznekov aveva trentasei anni, ed era diventato uno scrittore piuttosto noto. Riordinò tutti i ricordi e gli appunti di dodicenne in un manoscritto che presentò alla rivista “Gioventù”, pensando che nell’Unione Sovietica post-staliniana sarebbe stato possibile pubblicarlo. Naturalmente si sbagliava, e per due anni fu costretto limare, correggere e integrare un testo che “non era sufficientemente patriottico”. Si piegò e una prima versione edulcorata del libro uscì nel 1967, ma due anni dopo Kuznekov fuggì in Occidente portando con sé i microfilm del manoscritto originale, che pubblicò nel 1970 con lo pseudonimo di A. Anatoli. In Occidente Kuznekov lavorò per dieci anni a Radio Libertà, ma non scrisse più nulla, e morì di infarto nel 1979.
Nel volume ripubblicato oggi da Adelphi, sono chiaramente indicati tutti i tagli e i rimaneggiamenti richiesti dai censori del regime alla edizione originale, e il capitolo iniziale, indirizzato “ai lettori”, ricostruisce l’odissea del manoscritto. Anche questo è il racconto di un massacro.
Battista Gardoncini