“Genesi 2.0”, del pluripremiato regista svizzero Christian Frei e del suo collega russo Maxim Arbugaev, parte dalle zanne di mammut estratte dal fango delle isole della Nuova Siberia e arriva nei più avanzati laboratori di bioingegneria del mondo. Un viaggio affascinante ai confini della Terra e della ricerca, e anche una inquietante riflessione sui rischi di una scienza che ha imparato a manipolare le basi della vita.
Il documentario, in questi giorni nelle sale italiane, racconta in parallelo il tuffo nel passato di un gruppo di cercatori di zanne siberiani e il futuro possibile che si respira in un incontro internazionale di giovani genetisti. Da una parte ci sono la fatica, il freddo, e i pericoli di una terra ostile, che i nativi sfidano per recuperare l’avorio dai resti dei mammut e venderlo in Oriente, dove viene trasformato in preziose sculture. Dall’altra ci sono i ricercatori che lavorano per clonare l’esistente e creare nuove specie animali e vegetali.
I due mondi si incontrano quando dai resti perfettamente conservati di un mammut vengono recuperati campioni di carne e di sangue, e, almeno in teoria, si apre la possibilità di riportarne in vita uno con la tecniche della clonazione.
“Genesi 2.0” segue le tracce dei campioni fino a un laboratorio coreano specializzato, poi si sposta in Cina dove in pochi anni è nato uno dei più importanti istituti di ricerca del mondo. Con un efficacissimo montaggio Frei e Arbugaev alternano le suggestive immagini di una Siberia quasi preistorica con quelle avveniristiche dei laboratori, e mettono a confronto i dubbi dei cercatori di zanne, timorosi di ridestare gli spiriti della tundra, con la spregiudicata sicurezza degli scienziati. Non giudicano, ma osservano. E lasciano allo spettatore il compito non facile di decidere fin dove sia lecito spingersi, e quali siano i limiti che sarebbe meglio non superare.
gbg