La crisi degli stati nazionali

A chi ne ha abbastanza delle squallide beghe della nostra politica consigliamo la lettura di uno stimolante articolo dello scrittore anglo indiano Rana Dasgupta, pubblicato sul Guardian e proposto ai lettori italiani da Internazionale. La tesi, apparentemente paradossale, è che il sistema basato sugli stati nazionali sia in crisi in tutto il mondo, e che il nazionalismo sia soltanto l’ultimo sintomo del suo inarrestabile declino. La riflessione è assai articolata, riassumerla in poche righe non è facile. Ma ci proviamo.

Secondo Dasgupta,  in un mondo globalizzato che compra gli stessi prodotti e usa Google e Facebook non ha più senso discutere di politica riferendosi a quello che accade all’interno dei singoli stati sovrani. Tutti i paesi fanno parte dello stesso sistema e sono sottoposti alle stesse pressioni. Ovunque gli stati si stanno dimostrando incapaci di resistere alle spinte del ventunesimo secolo, e subiscono una catastrofica perdita di influenza sulla condizione umana. Il nazionalismo apocalittico che sembra tornare di moda, il machismo come stile politico, la costruzione di muri, la xenofobia, il mito e la teoria della razza non sarebbero quindi i tentativi di trovare una via d’uscita dalla crisi, ma i sintomi di una avanzata fase di decadenza politica e morale da cui gli stati non possono uscire da soli.

Le strutture politiche del Novecento – dice Dasgupta –  affogano in un oceano fatto di deregolamentazione finanziaria, tecnologia sempre più autonoma, militanza religiosa e rivalità tra grandi potenze, mentre i paesi ex coloniali più deboli e sfruttati si spaccano e le loro popolazioni scelgono la strada delle  milizie tribali o della creazione di super-stati etnici e religiosi. Per un numero crescente di persone  le nazioni sono incapaci di garantire un futuro plausibile, mentre le élite finanziarie, grazie alla impossibilità di controllare i flussi di denaro, si sottraggono sempre di più agli obblighi di fedeltà nazionale.

Secondo Dasgupta il declino del sistema degli stati nazionali è irreversibile: ci sono voluti cinquanta anni per costruire il sistema globale da cui oggi tutti dipendiamo, e non è possibile tornare indietro, anzi è probabile che la prossima fase della rivoluzione tecnico-finanziaria sia ancora più disastrosa per l’autorità politica nazionale: già oggi le aziende che raccolgono grandi quantità di dati hanno assunto funzioni un tempo riservate agli stati, come la cartografia e la sorveglianza, e le valute digitali stanno minando il monopolio della moneta.

L’autorità politica – dice Dasgupta – è agli sgoccioli, e i leader del ricco occidente non sono in grado di produrre cambiamenti significativi. Per questo devono alimentare e mettere in campo sentimenti forti: l’odio verso gli stranieri e i nemici interni, o dubbie imprese militari. Ma per quanto faccia, un presidente come Donald Trump non avrà mai il controllo sulla vita degli americani che aveva negli anni Sessanta l’amministrazione Kennedy. Per questo è costretto a simularlo, e poco importa che i suoi elettori accettino di buon grado l’inganno, perché hanno paura di quello che potrebbe succedere se si scoprisse che il potere dello stato è una bufala. 

Il quadro che Dasgupta dipinge dei paesi poveri del mondo è diverso, ma non meno preoccupante. Stati assemblati in pochi mesi dopo la decolonizzazione, cresciuti nella violenza e nella sopraffazione alimentata dalle superpotenze nel corso della guerra fredda, continuano oggi a pagare  il prezzo dello sfruttamento dei più deboli  che caratterizza i rapporti internazionali. Gli abitanti non si illudono che il sistema possa offrire un futuro sostenibile, e dunque per molti di loro l’unica prospettiva rimasta è quella di uscirne, con un passaporto occidentale o imbracciando le armi contro l’occidente.

Che fare allora? Dasgupta ipotizza alcune direzioni di marcia.

La prima è chiara, ed è quella della regolamentazione della finanza globale, che elude i sistemi fiscali nazionali. Gli strumenti tecnologici per il controllo dei flussi finanziari esistono, serve la volontà di creare un sistema transnazionale che consenta non soltanto di tracciarli, ma anche di destinarne una parte al settore pubblico con una tassazione efficace. Se la sicurezza è un problema di tutti, diventa essenziale una più equa distribuzione della ricchezza, non attraverso la concessione di aiuti, ma con un sistematico trasferimento di risorse dai ricchi ai poveri.

La seconda direzione di marcia riguarda la creazione di una democrazia globale flessibile. I governi nazionali  – dice Dasgupta – andrebbero inseriti in una architettura di strutture stabili, capaci di regolare le turbolenze che molto spesso sono loro stessi a provocare. Con tutti i suoi difetti l’Unione Europea, favorendo la libera circolazione di persone e beni,  è stata un passo avanti. La sua trasformazione in una Europa delle Regioni potrebbe contribuire a ridurre le tensioni regionale, ad esempio in Scozia e in Catalogna.

La terza direzione di marcia riguarda la riforma del principio di cittadinanza. Ripensarlo separandolo dal territorio diventa una necessità, se si accetta l’idea che lo scopo fondamentale della democrazia sia quello di dare ai cittadini una qualche forma di controllo sulle loro condizioni di vita.  Oggi secondo Dasgupta la cittadinanza è la prima forma di ingiustizia del mondo, perché è quasi sempre ereditaria. Questo significa che le variabili fondamentali della vita su questo pianeta sono già decise al momento della nascita: un finlandese ha tutele giuridiche, aspettative economiche e possibilità di movimento totalmente diverse rispetto a un somalo o a un siriano, mentre un  sistema mondiale basato sulla libera circolazione dei  capitali dovrebbe se non altro garantire garantire la stessa libertà alle persone.

Per chi non ha conosciuto altro che il sistema attuale – conclude Dasgupta – queste proposte potrebbero sembrare inconcepibili. Ma la strada è segnata. Ci vorrà molto tempo, e l’approdo è incerto. Vale però la pena provarci.

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