14-15-16 luglio 1937, settantacinque anni fa. Riccardo Cassin, Luigi Esposito e Vittorio Ratti portano a termine la prima ascensione della parete nord est del Pizzo Badile, quella che «dal rifugio Sciora del Cas, si offre alla vista nella sua più completa e severa verticalità». Per l’epoca, è un evento d’eccezione.
A quel tempo, Cassin è già una celebrità nazionale. Ma come andarono le cose? «Risolto il problema della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo», racconta il celebre alpinista lecchese sulla “Rivista Mensile” del Club Alpino (ottobre 1937), «esponemmo al Comandante della Centuria Rocciatori il proposito di provare le nostre forze in quel baluardo granitico, definito (…) uno dei più grandiosi lastroni delle Alpi».
Dopo una prima ricognizione guastata dal maltempo a fine giugno, la cordata lecchese torna al rifugio Sciora e sale i primi 200 metri dello spigolo nord del Badile, per farsi un’idea del problema alpinistico. In procinto di scendere a valle, Cassin e compagni incontrano per la prima volta due comaschi intenzionati a tentare la parete, Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, che si fermano al rifugio in attesa di un miglioramento del meteo.
Il 12 luglio, comaschi e lecchesi si rivedono al Sciora. Attendono insieme il bel tempo. Alle 2 del mercoledì, Cassin e compagni abbandonano le cuccette. Piove, e non se ne fa nulla. Qualche ora dopo, però, il tempo migliora. La cordata parte alle 8 del mattino, senza preoccuparsi di Molteni e Valsecchi, già fuori da tre ore, che hanno scelto un altro punto di attacco. Due ore dopo, i lecchesi calzano le scarpette e cominciano a salire, Cassin in testa, seguito da Esposito e Ratti. Un’ora, e i comaschi sono già staccati. Intanto il tempo s’è rimesso decisamente al bello. La sera la cordata di Cassin prepara il bivacco e saggia la parete per un’altra cinquantina di metri. Più tardi arrivano anche i due ritardatari. Notte in comune.
Alle 5 del mattino successivo è già ora di ripartire. Molteni chiede a Cassin di formare un’unica cordata. «Forse i comaschi non si sentono più di riprendere da soli, date le loro condizioni fisiche, forse già menomate dal fatto che per dieci giorni hanno dovuto dormire sul tavolaccio nel primo vano del rifugio, perché essi erano sprovvisti delle chiavi» ricorderà Cassin. Pur perplessi, i lecchesi accettano la proposta.
La scalata procede spedita per quasi tutta la giornata. Una scarica di sassi trancia il sacco di Molteni, ma si va su di buona lena. Verso sera, però, i comaschi rallentano. Sono stanchi. Si prosegue fino alle 21, quando si trova un pianerottolo per il bivacco. Molteni e Valsecchi danno segni di sfinimento. «Resisteranno?» si chiede Cassin. Poco dopo un violento temporale inzuppa il gruppo fino al midollo. A mezzanotte un forte vento spira da nord. Torna il sereno e la temperatura si abbassa di colpo. La notte è infame, e la mattina bisogna aspettare il sole, prima di muoversi. A quel punto, i comaschi sono a pezzi. L’ordine della cordata cambia: Cassin sale da primo; lo seguono, nell’ordine, Esposito, Molteni, Valsecchi e Ratti. Le difficoltà si fanno subito sentire, l’acqua che scende copiosa nel camino di salita fiacca le ultime energie dei comaschi. In più, il tempo comincia a guastarsi. Cassin allora aumenta l’andatura. Molteni e Valsecchi, pur aiutati dai compagni, non reggono il ritmo. A mezzogiorno, il tratto della traversata esposta è sotto la pioggia. Poi arrivano la grandine, il vento, e infine la neve. Fa molto freddo. Bisogna forzare l’uscita. Il cognac e i biscotti vanno ai due compagni più provati. Ma non si può correre, in quelle condizioni. Tanto più che la tormenta non accenna a diminuire. Alle 16, la vetta. Ma è solo un passaggio, non ci si può fermare. Bisogna buttarsi giù verso il rifugio Gianetti. A un certo momento, non si vede più nulla. Si cerca un passaggio a destra, poi a sinistra. Niente da fare. Bufera, freddo, neve. L’ultimo cognac finisce nella gola dei compagni ormai quasi privi di reazioni. Poi Valsecchi si accascia senza più reagire. Cassin se lo carica sulle spalle e cerca di scendere. Ma il peso è eccessivo. Così il cadavere viene ancorato a un masso. Quando Molteni si accorge della scomparsa del compagno, cede di schianto. «Ad un tratto si accascia al suolo» ricorda Cassin, «invano trattenuto da noi che cerchiamo di riscuoterlo dal torpore che lo ha invaso, reclina il capo sul petto e senza un lamento rimane esanime nelle nostre braccia».
Impossibile scendere, in quelle condizioni. I lecchesi improvvisano un terzo, disperato bivacco. A mezzanotte la tempesta si placa. I tre cercano di scaldarsi abbracciandosi, e attendono le prime luci del giorno. L’alba è radiosa, il cielo terso. Si guardano intorno. Sembra una beffa: 100 metri sotto di loro, si vede il nevaio che sta al piede del Badile. Portano fino alla base la salma di Valsecchi, la coprono con il suo sacco da bivacco e scendono verso il rifugio. Il giorno dopo, con una squadra di soccorso, Cassin, Esposito e Ratti recuperano le salme dei compagni. Nessun altro incidente, da quel momento, si affaccerà alla lunga e straordinaria carriera di Riccardo Cassin. Ma quella volta è proprio dura.