Tra pochi giorni, giovedì 15 febbraio, alle 21, al circolo della Stampa di corso Stati Uniti 27, verrà ricordata la figura di Giancarlo Carcano, giornalista, storico e consigliere comunale a Torino, prematuramente scomparso il 24 dicembre del 1993. L’occasione è la riedizione, voluta dalle Edizioni del Capricorno, di “Torino 1917, cronaca di una rivolta”, una accurata ricerca di Carcano sui cinque giorni che nell’agosto dell’anno più duro della guerra sconvolsero la città. Nata dalle proteste per la mancanza di pane, la rivolta si trasformò in una manifestazione a favore della pace, e fu repressa nel sangue. Ad oggi il lavoro di Carcano resta un punto di riferimento essenziale per chiunque voglia approfondire un episodio importante della storia del movimento operaio torinese. La serata di giovedì, organizzata dalla Associazione dei Consiglieri Emeriti e dalla fondazione Vera Nocentini, sarà anche l’occasione per ricostruire il ruolo avuto da Carcano nel giornalismo democratico piemontese attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto o ha avuto la fortuna di lavorare con lui. Ecco il mio ricordo.
Morendo prematuramente nel 1993, alla vigilia di Natale, Giancarlo Carcano lasciò un grande vuoto nella redazione piemontese della RAI, dove era stato uno dei primi conduttori del telegiornale regionale, un infaticabile caporedattore, un amico di tutti.
Aveva una enciclopedica conoscenza di Torino e del Piemonte, sorretta da una memoria prodigiosa per le date, gli uomini e le cose. Non c’era Google, allora, e la presenza di Giancarlo in redazione era di grande aiuto per tutti. Questa sua memoria, anche nei testi per forza di cose brevi di un telegiornale, gli consentiva di andare oltre il semplice resoconto degli avvenimenti. Tutti i suoi servizi, di politica di cronaca e di sport, lasciavano il segno. Erano di esempio per noi, giovani di redazione, che da lui cercavamo di imparare il mestiere, e non lasciavano indifferenti chi li ascoltava da casa.
Giancarlo era un giornalista serio e competente. Non era mai banale, non cercava di semplificare ad ogni costo gli argomenti complessi, non cercava facili scorciatoie. Insomma, non vendeva “aria fritta”, come si dice nel gergo giornalistico. Ma sapeva farsi ascoltare, con il suo linguaggio semplice e diretto, esattamente come sapeva farsi leggere negli articoli scritti per la carta stampata e nei libri che nascevano dal suo grande interesse per la storia del movimento operaio e del sindacato. E proprio al sindacato dei giornalisti ha dedicato molte delle sue energie, ricoprendo diversi incarichi nella associazione Stampa Subalpina e a livello nazionale, dove si è dimostrato un leader duttile nelle trattative, ma intransigente sui principi.
Giancarlo era un appassionato uomo di sinistra, un militante nel senso migliore della parola, che esclude ogni faziosità, ma implica il desiderio di cambiare il mondo. E voleva farlo attraverso il giornalismo, che considerava importante, quasi essenziale, per la tenuta di una società democratica.
I giornalisti con poco mestiere e poche idee, oppure quelli che per quieto vivere preferiscono non andare oltre l’acritica accettazione dell’esistente, si aggrappano al mito della oggettività, che mette tutto sullo stesso piano e porta a considerare di pari valore tutte le argomentazioni, anche quando sono palesemente pretestuose o sbagliate. Per chi la pensa così il giornalista è poco più di un registratore o di uno stenografo. Deve limitarsi a riferire, gli sono preclusi i commenti e le interpretazioni. La par condicio che sperimentiamo in questi giorni di campagna elettorale, è la codificazione estrema di questo modo di pensare, e i risultati purtroppo sono sotto gli occhi di tutti.
Giancarlo non la pensava così. Era diventato giornalista dopo una lunga gavetta, consumando la suola di molte scarpe. Aveva vissuto gli anni della strategia della tensione, delle stragi e del terrorismo, anche con qualche rischio personale. E aveva una concezione alta del mestiere. Informare, per lui, voleva dire spiegare le cose al meglio delle proprie possibilità, assumendosi la responsabilità delle proprie affermazioni anche quando c’era il rischio di pagare qualche prezzo. Ma questo non significa che fosse di parte. Nessuno ha mai potuto contestare la correttezza dei suoi servizi, anche quando toccavano grandi interessi o rivelavano particolari poco edificanti sul comportamento dei potenti di turno, che nella Torino di quegli anni erano in genere legati al mondo Fiat. Anche per questo, forse, corso Marconi non lo amava e ha contribuito a sbarrargli la strada verso la più alta carica redazionale, che avrebbe ampiamente meritato.
Giancarlo pensava che un buon giornalista, prima di scrivere, dovesse cercare di capire quello che si nasconde sotto la superficie dei fatti, e che un racconto non fosse completo senza questo tipo di approfondimento. Per questo non rincorreva una impossibile oggettività, ma si atteneva all’unico vincolo che considerava davvero importante, l’onestà intellettuale nei confronti del pubblico. Quella onestà che gli impediva di sorvolare sulle marachelle degli amici e di nascondere i fatti che non collimavano con la sua visione del mondo, quella onestà che lo rendeva più credibile di molti altri. Penso che oggi, in un giornalismo fatto di interviste in ginocchio, copia e incolla dai comunicati stampa e scopiazzature dal web, sarebbe fortemente a disagio.
Giancarlo, nonostante la sua aria un po’ dimessa, era un uomo molto spiritoso. Le ore passate in sua compagnia erano davvero piacevoli. E nessuno in redazione se l’è mai presa per i soprannomi azzeccatissimi che ci affibbiava. Ne ricordo alcuni, Ferodo, Pio Percopo, Testa di Ferro, Arrogance, Trottolino, Percolato, Barchetta, capitan Trinchetto. Chi c’era si riconoscerà. Il mio era Rabbino Capo.
Battista Gardoncini