Si sono appena spente le luci – anzi, si sono appena accese in sala dopo il “The End” – del Torino Film Festival ed ancora una volta, come accade da 35 anni, il soffio rigenerante di 10 giorni di cinema, internazionale ha dato aria nuova, ossigeno puro alle migliaia di spettatori che hanno seguito quanti più film possibile.
E bene hanno fatto perché avere l’occasione di vedere così tante opere, inglesi, coreane (solo Corea del Sud, purtroppo), argentine, israeliane, russe, francesi, tailandesi, per lo più buone, è una grande fortuna, una ricchezza di cui Torino può andare fiera.
Molti sono gli argomenti a favore di questa manifestazione che, nel panorama italiano ha un posto di grande importanza culturale, ma uno dovrebbe essere sottolineato di più: la lingua originale sottotitolata con cui vengono presentate tutte le pellicole è un potentissimo mezzo per entrare nel cuore delle civiltà, per capirne il sostrato culturale ed il vissuto sociale.
Il doppiaggio ha abituato gli spettatori italiani ad una pigrizia mentale deleteria sia per la comprensione delle storie narrate sia per la tanto desiderata apertura linguistica internazionale che ci manca. Del resto l’inglese è per lo più sconosciuto alla classe media del nostro Paese e va poco meglio nelle scuole dove è studiato male.
Eppure vi sono innumerevoli esempi di quanto serva conoscere almeno un’altra lingua, specie per quei Paesi il cui idioma non è parlato da centinaia di milioni di persone: per dirne uno molto vicino, è risaputo come la grande ondata di emigrazione dall’Albania negli anni novanta fu favorita proprio dal fatto che, pur vivendo in una nazione-carcere, gli abitanti, avevano avuto la possibilità di vedere la televisione italiana, riuscendo così a conoscere il nostro paese e ad imparare in modo eccezionalmente buono la lingua (certo vivere in Italia, dopo, fu tutta un’altra cosa….).
Sessanta milioni di parlanti la nostra lingua, più svariati milioni di emigrati in giro per il mondo, più un cospicuo numero di amanti e conoscitori dell’italiano un po ovunque, non ci autorizzano ad essere perennemente impreparati al dialogo con gli stranieri e, soprattutto, a credere di poter navigare nel complesso oceano dell’economia globale senza il salvagente della cultura plurilinguista.
Così quando al TFF viene presentato un film come “L’ altrove più vicino” di Elisabetta Sgarbi, sulla Slovenia, non colpisce solo la bellezza dei luoghi e la singolarità di un destino di vicinanza e, contemporaneamente, grande diversità che ha segnato i due popoli di confine, ma quanto, loro, gli sloveni, ci abbiano tenuto a parlare anche la nostra lingua (c’è un canale della radio nazionale in italiano) e quante altre ne usino, dal tedesco, all’inglese addirittura al russo.
Nel film “A voix haute-Speak up”, che non a caso ha avuto il massimo gradimento da parte del pubblico, studenti (veri) francesi, più della metà stranieri immigrati, vivono l’entusiasmante esperienza di una gara di oratoria: la parola, come potente mezzo di contatto con la gente, unisce e galvanizza loro e lascia incantati noi. Quanto si può fare imparando a parlare……
Quindi, sapendo bene che le nuove generazioni di migranti arrivati nel nostro Paese e futuri italiani (si spera presto), oltre la lingua imparata qui, come minimo ne conoscono un’altra – l’arabo, il cinese, lo spagnolo, l’inglese, il rumeno-, ai “nativi”occorre più che mai attrezzarsi per stare al mondo.
Il Torino Film Festival, dunque, dovrebbe essere supportato e finanziato in modo cospicuo non solo perché è una manifestazione di successo – lo ha dimostrato quest’anno anche con meno soldi – ma anche perché rappresenta un enorme pentolone dove il Mago Merlino delle lingue immerge per dieci giorni gli spettatori, di cui moltissimi giovani: la magia quasi sempre si compie e se ne esce pensando in inglese o francese (più difficile col tailandese o il coreano !).
La narrazione di altri luoghi, altre storie con la voce reale degli attori immerge totalmente nella vita rappresentata e lascia assaporare il gusto vero del racconto: resta, all’uscita dal film, molto di più e più a lungo.
In questo modo la malattia, tutta italiana, del “monolingualismo” riceve un piccolo medicamento a conferma del fatto che, come diceva un “pin” distribuito qualche anno fa, può essere curato.
Mirella Calvano