Tutto rivolto al “suo” pubblico, il programma del Festival di cinema Gay, che peraltro non si chiama più così, per la prima volta, alla trentaduesima edizione, firmato da un nuovo direttore, la trentunenne regista Irene Dionisio, che ha debuttato nel cinema l’anno scorso con il film “Le ultime cose”, e che non vanta nessuna esperienza nell’organizzazione di rassegne cinematografiche. Dal 15 al 20 giugno al cinema Massimo viene proposto un programma ricco, certamente nei numeri, con più di 80 titoli arrivati da 31 nazioni, con alcune anteprime internazionali ed europee, e una cinquantina italiane, divisi in 4 sezioni competitive. Sette i film nella vetrina principale, il concorso lungometraggi.
In un programma sulla carta, la buona qualità dei film nei festival, e questo non può fare eccezione, viene data per scontata, senza dimenticare che tra i titoli in concorso o fuori competizione può anche annidarsi qualche insospettato capolavoro o qualche autore che un domani sarà un grande nome del cinema mondiale. Come, del resto, non manca il respiro internazionale, con film in concorso da Filippine, Brasile, Regno Unito, Stati Uniti, Argentina, Sud Africa con un po’ di Europa. E manca un titolo italiano, anche perché il nostro cinema quando produce film sul tema omosessualità, quasi sempre la butta in burletta o in vicende tragicomiche spesso indigeribili.
Una “internazionalizzazione”, come viene chiamato il nuovo corso, che nuovo non è, in una nota di intenti, che tuttavia il nuovo direttore ha voluto ostinatamente e in questo caso vanamente inseguire anche con il nuovo nome del festival, “Lovers”, e con una miriade di titoli e titoletti delle varie sezioni in lingua inglese, come se il festival torinese di cinema gay si svolgesse a Manchester.
In effetti, internazionale il festival lo era già senza rincorrere inutili e un po’ pretestuosi anglicismi, come se si volesse stupire con gli effetti speciali o vendere il vecchio, peraltro benemerito, travestito da nuovo: e notoriamente non sono, o non dovrebbero essere, le suggestioni dei titoli in lingua inglese a dare la patente internazionale a un evento.
Un festival gay, dunque, che sembra chiudersi in se stesso, che non vuole crescere, complice anche un risicato fondo di 405 mila euro, con un taglio del 15 per cento che ha toccato anche tutte le altre manifestazioni a causa delle forbici comunali sul bilancio della cultura. Una riduzione, tuttavia, compensata dall’apporto degli sponsor.
Un festival che sembra rinunciare, o non vuole provarci, ad allargare la sua platea di spettatori, a intercettare qualche frammento di nuovo pubblico anche attraverso qualche ospite largamente riconoscibile. Da questo punto di vista, cinema gay è un festival totalmente nuovo, diverso dalla consolidata storia messa a punto negli anni dall’ex direttore Giovanni Minerba, ora Presidente, e nei primi 10 anni con la complicità dell’altro fondatore scomparso, Ottavio Mai. E forse non a caso Minerba dà il titolo “C’era una volta” alla paginetta di presentazione del festival riservata al presidente,
Una rassegna di cinema non può fare a meno, che piaccia o no, di qualche ospite che metta insieme la passione per il cinema con la notorietà conclamata, la popolarità, anche se su questo versante molte altre manifestazioni esagerano. C’è chi può testimoniare che negli anni passati numerosi nuovi spettatori si erano avvicinati a cinema gay, lontano anni luce dalle loro “sensibilità”, perché c’erano Claudia Cardinale, Franco Nero, Lino Banfi, Lucia Bosé, Paola Cortellesi, Patty Pravo, oppure fior di registi come James Ivory, Liliana Cavani, Gianni Amelio, John Waters, Gus Van Sant, Eytan Fox… per tacere di tanti altri.
E negli anni seguenti quei nuovi, insospettabili spettatori di un festival dedicato al cinema omosessuale, erano tornati. Ecco, attraverso quel personaggio del cinema o della Tv, avevano scoperto il festival gay!
Quanto ad ospiti, il nuovo direttore, per scelta o per necessità, perché anche la scarsità di finanziamenti può giocare la sua parte, punta invece sulla cantante-attrice, o viceversa, Violante Placido, “Viola” il nome d’arte in versione cantante, sul venerato maestro francese, già ospitato da cinema gay Paul Vecchiali, nome prestigioso tra gli addetti ai lavori, che porta il suo film “C’est l’amour”, del 2015, e altre due opere tra le quali “Le cancre” interpretato da Catherine Deneuve, sulla poetessa Patrizia Cavalli, sull’attrice-artista Eva Robin’s, e sull’attivista dei diritti umani Stuart Milk, nipote di Harvey Milk, il primo politico americano dichiaratamente omosessuale, ucciso nel ’78 ( su questo personaggio qualche anno fa era stato realizzato da Gus Van Sant il bel film “Milk”, interpretato da Sean Penn).
Tutti nomi della massima considerazione, ciascuno nel suo campo. Eppure, resta la sensazione di un festival “riservato” al suo pubblico, chiuso nel suo recinto, che non ha l’ambizione di allargare il suo campo d’azione. Il direttore Irene Dionisio nel titolo della sua presentazione, “Le farfalle non volano nel ghetto”, per parlare del suo festival, e dunque della condizione omosessuale oggi, scomoda addirittura la shoah, con una una citazione-parafrasi dell’ultimo verso (“le farfalle non vivono nel ghetto”) della poesia “La farfalla”, di Pavel Friedman, morto nel campo di concentramento di Auschwitz a 23 anni (ma di tutto questo il direttore non fa alcun cenno), e nella prima riga scrive “C’era una volta… e ci sarà ancora”, riprendendo, chissà se polemicamente, il dolente-nostalgico “C’era una volta” di Minerba. E poi, di negazione in negazione, tra l’altro aggiunge che “questa trentaduesima edizione non rinnega il passato, non rinnega il percorso, non disperde le energie”, come se qualcuno possa pensarlo, e poi si inerpica in spericolate quanto forbite affermazioni di moda e buone per tutte le stagioni quali “ma cerca un nuovo lessico, una nuova dimensione partecipativa e inclusiva, ritualizza (sic!) le questioni LGBTQI immettendole nella contemporaneità, senza pregiudizi e paure, senza perdere la propria radicalità”.
I film, le singole pellicole, lo si deve senz’altro sperare, saranno certamente un’altra cosa.
Nino Battaglia